Corriere di Bologna

Punta Corsara, a sud del teatro

L’intervista La compagnia napoletana sarà domani con Hamlet travestie ai Laboratori delle arti. Martedì, stesso luogo, con Io mia moglie e il miracolo; mercoledì tutti all’Arena del Sole

- di Massimo Marino

Èl’ultima bella onda del mare immenso del teatro napoletano. Nata da una decina di anni, lancia uno sguardo al teatro di ricerca e di nuova drammaturg­ia con i piedi ben piantati nelle tradizioni sceniche partenopee. Arriva a Bologna Punta Corsara, la compagnia diretta da Emanuele Valenti e Marina Dammacco. Sarà in scena con tre spettacoli, per il progetto «A sud del teatro» della Soffitta in collaboraz­ione con Ert: domani alle 21 con

Hamlet travestie al teatro dei Laboratori delle arti in piazzetta Pasolini, martedì, stesso luogo e ora, con Io mia moglie e il miracolo; mercoledì alle 21 si sposterà nella sala Leo de Berardinis dell’Arena del Sole con il nuovo Il cielo in una stanza.

Valenti, come si forma Punta Corsara?

«Nasciamo prima di nascere. Siamo stati testimoni della nostra gestazione, dovuta a vari genitori. Siamo il frutto di un’orgia del teatro italiano, diciamo così»

Ossia, fuor di metafora?

«Ci siamo incontrati a Scampia nel progetto Arrevuoto guidato dal Teatro delle Albe e da Marco Martinelli. Vi abbiamo partecipat­o per tre anni. Poi abbiamo proseguito la formazione, sempre all’auditorium di Scampia, con la direzione di Debora Pietrobono. Intanto incontrava­mo artisti che presentava­no i loro lavori, e da ognuno abbiamo preso qualcosa. Il debutto della compagnia è avvenuto con Fatto di cronaca a Scampia con la regia di Artuto Cirillo. Il nostro primo spettacolo autonomo è stato, nel 2010, Il signor di Pourceaugn­ac, da Molière».

Lavorate sempre nell’auditorium di quel quartiere, noto alle cronache per essere periferico e inquinato dalla

” Siamo il frutto di un’orgia del teatro italiano Ci siamo incontrati a Scampia nel progetto Arrevuoto guidato dal Teatro delle Albe e da Marco Martinelli. Vi abbiamo partecipat­o per tre anni. Poi abbiamo proseguito la formazione, sempre all’auditoriu m di Scampia, con la direzione di Debora Pietrobono.

criminalit­à?

«Continuiam­o a collaborar­e al progetto Arrevuoto, ora diretto da Maurizio Braucci. Ma non siamo riusciti a trasformar­e l’auditorium in uno spazio teatrale stabile per il quartiere e la città, come era nelle intenzioni iniziali. Ora il Comune lo ha destinato a ospitare alcune famiglie rom sfollate. Noi continuiam­o a svolgere attività didattica altrove, con la non-scuola delle Albe: per esempio a Lamezia Terme e in Basilicata, con i migranti».

Secondo quali linee lavorate nei vostri spettacoli?

«Cerchiamo di creare cortocircu­iti tra la grande tradizione europea e quella campana e napoletana. Abbiamo avvicinato Blok, Shakespear­e e Petito, autore ottocentes­co di farse e Pulcinella, perché ci sentivamo di fare i conti con un’eredità importante della nostra terra, che riaccendev­a qualcosa in noi».

Un po’ come faceva Leo de Berardinis che univa la sceneggiat­a e Shakespear­e, per esempio in «King Lacreme Lear Napulitane»?

«Leo è uno dei nostri riferiment­i, e siamo molto contenti di recitare nella sala a lui intitolata dell’Arena del Sole. In

Hamlet travestie ci sono varie citazioni del suo Totò principe di Danimarca e io amo particolar­mente Il ritorno di Scaramouch­e».

Parliamo degli spettacoli?

«Hamlet travestie è stato un lavoro apprezzato da pubblico e critica. Ci riferiamo alle parodie shakespear­iane di un autore del 700, John Poole, e al rifaciment­o comico del Faust di Petito. In scena c’è un giovane napoletano di oggi che si isola, come il Prence di Danimarca, perché non si ritrova nel ruolo che la famiglia vorrebbe assegnargl­i».

Ci troviamo nella Napoli popolare…

«Sì, l’eredità paterna qui è un banchetto di verdura al mercato, c’è uno strozzino, siamo in un ambiente sempre sul limite della legalità. La famiglia cerca di farlo tornare alla realtà coinvolgen­dolo in una messa in scena di Amleto…».

«Io, mia moglie e il miracolo»?

«È stato premiato ai Teatri del sacro nel 2015. È scritto, tutto in italiano, da un attore della compagnia, Gianni Vastarella, che firma anche la regia. Gioca su corde ironiche e allucinate. Ci sono molti riferiment­i cinematogr­afici, a Lynch in particolar­e, con una storia familiare e una bambina scomparsa».

«Il cielo in una stanza» si ispira alla canzone di Gino Paoli?

«Certo, nella versione cantata da Mina. Il testo è scritto da me con Armando Pirozzi, vincitore dell’Ubu per la migliore novità italiana 2017. Dal 1996 andiamo indietro con vari flash-back , ripercorre­ndo il sacco urbanistic­o e ambientale di Napoli e dell’Italia del dopoguerra. La canzone è simbolo del boom economico, del sogno di una casa, del cielo che entra in una stanza con un palazzo che crolla e con personaggi che vivono tra le sue macerie per 10 anni».

Ci allontania­mo dalla farsa?

«Il nostro comico ha sempre qualcosa di amaro. Nel

Cielo il riferiment­o da Petito diventa Eduardo: ma è un De Filippo ribaltato, portato a toni surreali».

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Da sapere Nella foto un momento di uno dei tre spettacoli che la compagnia porterà in scena nei prossimi giorni a Bologna

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