Sohyla, orgogliosamente libera «Ormai è qui che sono a casa»
Ristoratrice, la sua famiglia era perseguitata dal regime
— il regime ha sconvolto la mia vita». È nata a Shiraz, «prima capitale dell’antica Persia», precisa. «Sono arrivata da studentessa in Farmacia, avrei potuto chiedere rifugio politico ma non l’ho fatto per poter mantenere il passaporto iraniano. La mia terra mi manca, ma ho scelto di essere una donna libera». Tanto che quando 29 anni fa è nata sua figlia a Bologna ha deciso di darle un nome persiano: «Raha, che vuol dire libera». «Chi emigra dall’Iran non lo fa in cerca di fortuna, sceglie semplicemente di essere libero. In Iran le donne non sono libere, ci sono le carceri piene di donne, di preti, di uomini che hanno tentato anche solo di opporsi con una parola di troppo al regime. Perché le donne devono portare il velo?».
Lei non lo ha mai indossato, proviene da una famiglia laica e l’unica volta che ha deciso di vestire lo chador, il tipico velo con mantella iraniana, lo ha fatto per entrare in una moschea: «Ma solo perché ero curiosa», sottolinea. Da otto anni gestisce il ristorante Pars in Bolognina: «Dodici anni fa — racconta a fatica — sono tornata con mia figlia in Iran. È stato il viaggio più duro della mia vita, mi sono resa conto di aver perso tutto e quando sono tornata, quando ho visto San Luca, mi sono sentita a casa. Era arrivato il momento di far qualcosa: attraverso il cibo conservo le tradizioni della mia terra e continuo a battermi per le donne iraniane, non devono stare in silenzio», dice Sohyla con un tono di voce basso ma deciso. Un anno fa è stata premiata dal Comune di Bologna con la targa in nome della partigiana Tina Anselmi, dedicata a donne che si sono distinte nel lavoro. Il premio è incorniciato nel suo ristorante, accanto alle ceramiche persiane, conservato come il più preziosi dei servizi iraniani da tè.