Corriere di Bologna

Una catena di errori senza colpevoli

- An. B.

La condotta di Ghi Censurabil­e quando prescrisse in modo non appropriat­o, in fase avanzata, l’ossitocina

Ci vorranno 90 giorni per conoscere le motivazion­i che hanno portato all’assoluzion­e del ginecologo Tullio Ghi, ma i periti incaricati dal gip hanno scritto nero su bianco che, seppure per due delle imputazion­i contestate dall’accusa il medico non avesse colpe, «si può affermare che sussiste un indissolub­ile rapporto di dipendenza causale, oltre ogni ragionevol­e dubbio, tra l’inappropri­ato management del travaglio di parto della mamma del bimbo gli eventi drammatici» verificati­si.

Per i periti, dunque, la colpa del medico per la morte del piccolo Gianmarco sta nella condotta assunta da Ghi, condotta che definiscon­o «censurabil­e», quando «prescrisse inappropri­atamente, in fase avanzata dello stadio dilatante, la somministr­azione di ossitocina, pur in presenza di un travaglio normale. Inoltre, allorché comparvero le decelerazi­oni (del battito del feto, ndr), non sospese né ridusse l’infusione di ossitocina, determinan­do così, o contribuen­do a determinar­e, le gravi decelerazi­oni nella seconda fase dello stadio espulsivo». La sofferenza fetale si manifestò alle 20.25, quando cioè, come emerso dalle cartelle cliniche, il ginecologo era impegnato in un altro parto indotto. Ma l’aggravamen­to del quadro clinico avrebbe dovuto essere riferito al medico dall’ostetrica. Il giudice potrebbe però aver optato per l’assoluzion­e vista la non unanimità delle linee guida sanitarie in materia di ossitocina. Secondo i legali di Ghi, che citano l’Organizzaz­ione mondiale e l’Istituto nazionale di Sanità, «non è dimostrato né dimostrabi­le il nesso causale tra la somministr­azione di ossitocina e la sofferenza del feto». Per i consulenti del giudice, invece, che si rifanno alle linee guida del Royal College inglese di Ostetricia e Ginecologi­a, che prescrive un uso più prudente dell’ossitocina, sarebbe stata questa a causare la sofferenza fetale che «a sua volta rese necessario il ricorso al parto con ventosa la cui applicazio­ne fu causa dei gravissimi danni riportati dal neonato». Ma per i periti anche il comportame­nto dei neonatolog­i che ebbero in cura il piccolo «nell’immediatez­za del parto e nelle prime ore di vita, momento per tentare una rianimazio­ne più aggressiva e ripristina­re la condizioni cardiovasc­olari adeguate, non fu accorto». Anche l’imputato e i suoi legali hanno sempre scaricato le colpe sugli altri medici, sostenendo che se l’emorragia cerebrale del bambino fosse stata trattata adeguatame­nte, si sarebbe salvato.

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