L’acciaio di Pittsburgh secondo Smith
Inaugura oggi la mostra del fotografo (e giornalista) a cent’anni dalla nascita con 170 stampe in bianco e nero realizzate soprattutto a Pittsburgh per la serie «Ritratto di una città industriale»
Si dovesse riassumere l’opera e la figura di W. Eugene Smith con una parola, quale sarebbe? «Smith, simply Smith», risponde Urs Stahel, curatore della personale dedicata al fotografo americano che apre al pubblico oggi dalle 10 alle 19 e fino al 16 settembre al Mast di via Speranza (dove domani e sabato si terrà fra l’altro il Festival Laboratorio delle imprese familiari, a cura del Corriere della Sera), «del resto se dovessi chiederlo per la Ferrari tutti risponderebbero Ferrari. È la stessa cosa». Concetto chiaro, parliamo di numeri uno. Smith è stato infatti uno degli eroi del reportage di guerra e non solo e del saggio fotografico negli anni d’oro delle riviste illustrate, fino quindi all’avvento della televisione. Fotogiornalista, artista, un tutt’uno, tant’è che lui stesso scriveva «vorrei chiarire fin dall’inizio che non esiste alcun conflitto tra il giornalismo e la mia dimensione artistica. Un tempo esisteva, ma poi ho capito che per essere un buon giornalista dovevo essere il miglior artista possibile». Parole che si leggono sulle pareti del Mast dove, a cento anni dalla sua nascita, sono esposte 170 stampe vintage, di media grandezza, tutte in un profondissimo bianco e nero, provenienti dalla collezione del Carnagie Museum of Art di Pittsburgh, facenti parte del nucleo principale di uno dei lavori più significativi, lunghi, importanti e sofferti da Smith: «Ritratto di una città industriale», che è appunto Pittsburgh, capitale dell’acciaio. Dentro questo corpo di immagini troviamo l’anima del suo autore, la cui biografia feroce e intensa, geniale e ostinata, musicale e tossica, e infine solitaria rischia addirittura di divorare gli scatti di cui è autore fin da piccolo — presto orfano di padre e con una presenza materna che secondo i suoi critici gli consegna quel tragico desiderio di trovare (ad
” Scriveva Smith Vorrei chiarire fin dall’inizio che non esiste alcun conflitto tra il giornalismo e la mia dimensione artistica. Un tempo esisteva, ma poi ho capito che per essere un buon giornalista dovevo essere il miglior artista possibile
ogni costo) l’assoluto. Vita e opere, opere e vita. Così funziona per W. Eugene Smith. La sua prima vera collaborazione, con Newsweek, si chiuse bruscamente perché s’era rifiutato di lavorare con una macchina a lui non gradita: queste rotture saranno una costante per lui che voleva controllare tutto il processo, dallo scatto all’impaginazione. Poco più che ventenne ne troverà altre, quindi diventerà reporter di guerra nel Pacifico per Life. Ferito in Giappone, rimase con la rivista americana fino al 1954 realizzando i classici reportage dell’epoca: tante pagine illustrate e un po’ di testo a corredo. Storytelling o Portfolio si dice oggi. Allora, nei 50 e 60 erano una vera finestra sui fatti della terra, negli States come in Europa. Le sue foto «non intendevano descrivere il mondo, volevano contenerlo», nei suoi resoconti l’obbiettivo era «che gli spettatori riuscissero a vedere al di là delle menzogne». In solitaria cercava la verità. «A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?», diceva. Parole rivelatrici come le sue foto. L’allestimento di testi colorati in questo mare bianco e nero pensato al Mast evoca e spiega il suo profilo, sicuramente non facile, mai domo. Una foto di Crane, con Smith ritratto nel suo studio newyorkese della fine degli anni 60, dieci anni prima della sua morte, ci racconta del suo sguardo: mille foto sparse ovunque insieme ad altri oggetti, un caos ‘descrivibile’ solo a lui, capace di pescare lì in mezzo quello che cercava. Smith parlava di «densità dell’arte», necessaria presenza dei suoi lavori. Il reportage su Pittsburgh, sulle sue acciaierie, operai, cittadini, amministratori, strade e case, paesaggi e vita, in sostanza «l’anima di questa città industriale della Pennsylvania», sarebbe dovuto durare poche settimane e invece andò avanti per tre anni, dal 55 al 57. Quasi una missione, del resto sempre presente nel suo curriculum: si ricordano i reportage Spanish Village in cui racconta questa piccola cittadina durante il franchismo oppure nei primi anni 70 Minimata viaggio in Giappone in cui documentò i tragici effetti dell’inquinamento da mercurio, dove peraltro scattò una delle sue foto più famose Pietà. A Pittsburgh dopo aver chiuso con Life (dopo un ennesimo diverbio), libero dal sistema degli incarichi (una vera cesura col mondo della stampa e dell’informazione) e dopo la rottura con la moglie e i quattro figli, da qui il trasferimento a New York in un loft in cui si suonava il jazz, sua passione.