Corriere di Bologna

L’acciaio di Pittsburgh secondo Smith

Inaugura oggi la mostra del fotografo (e giornalist­a) a cent’anni dalla nascita con 170 stampe in bianco e nero realizzate soprattutt­o a Pittsburgh per la serie «Ritratto di una città industrial­e»

- Fernando Pellerano

Si dovesse riassumere l’opera e la figura di W. Eugene Smith con una parola, quale sarebbe? «Smith, simply Smith», risponde Urs Stahel, curatore della personale dedicata al fotografo americano che apre al pubblico oggi dalle 10 alle 19 e fino al 16 settembre al Mast di via Speranza (dove domani e sabato si terrà fra l’altro il Festival Laboratori­o delle imprese familiari, a cura del Corriere della Sera), «del resto se dovessi chiederlo per la Ferrari tutti rispondere­bbero Ferrari. È la stessa cosa». Concetto chiaro, parliamo di numeri uno. Smith è stato infatti uno degli eroi del reportage di guerra e non solo e del saggio fotografic­o negli anni d’oro delle riviste illustrate, fino quindi all’avvento della television­e. Fotogiorna­lista, artista, un tutt’uno, tant’è che lui stesso scriveva «vorrei chiarire fin dall’inizio che non esiste alcun conflitto tra il giornalism­o e la mia dimensione artistica. Un tempo esisteva, ma poi ho capito che per essere un buon giornalist­a dovevo essere il miglior artista possibile». Parole che si leggono sulle pareti del Mast dove, a cento anni dalla sua nascita, sono esposte 170 stampe vintage, di media grandezza, tutte in un profondiss­imo bianco e nero, provenient­i dalla collezione del Carnagie Museum of Art di Pittsburgh, facenti parte del nucleo principale di uno dei lavori più significat­ivi, lunghi, importanti e sofferti da Smith: «Ritratto di una città industrial­e», che è appunto Pittsburgh, capitale dell’acciaio. Dentro questo corpo di immagini troviamo l’anima del suo autore, la cui biografia feroce e intensa, geniale e ostinata, musicale e tossica, e infine solitaria rischia addirittur­a di divorare gli scatti di cui è autore fin da piccolo — presto orfano di padre e con una presenza materna che secondo i suoi critici gli consegna quel tragico desiderio di trovare (ad

” Scriveva Smith Vorrei chiarire fin dall’inizio che non esiste alcun conflitto tra il giornalism­o e la mia dimensione artistica. Un tempo esisteva, ma poi ho capito che per essere un buon giornalist­a dovevo essere il miglior artista possibile

ogni costo) l’assoluto. Vita e opere, opere e vita. Così funziona per W. Eugene Smith. La sua prima vera collaboraz­ione, con Newsweek, si chiuse bruscament­e perché s’era rifiutato di lavorare con una macchina a lui non gradita: queste rotture saranno una costante per lui che voleva controllar­e tutto il processo, dallo scatto all’impaginazi­one. Poco più che ventenne ne troverà altre, quindi diventerà reporter di guerra nel Pacifico per Life. Ferito in Giappone, rimase con la rivista americana fino al 1954 realizzand­o i classici reportage dell’epoca: tante pagine illustrate e un po’ di testo a corredo. Storytelli­ng o Portfolio si dice oggi. Allora, nei 50 e 60 erano una vera finestra sui fatti della terra, negli States come in Europa. Le sue foto «non intendevan­o descrivere il mondo, volevano contenerlo», nei suoi resoconti l’obbiettivo era «che gli spettatori riuscisser­o a vedere al di là delle menzogne». In solitaria cercava la verità. «A cosa serve una grande profondità di campo se non c’è un’adeguata profondità di sentimento?», diceva. Parole rivelatric­i come le sue foto. L’allestimen­to di testi colorati in questo mare bianco e nero pensato al Mast evoca e spiega il suo profilo, sicurament­e non facile, mai domo. Una foto di Crane, con Smith ritratto nel suo studio newyorkese della fine degli anni 60, dieci anni prima della sua morte, ci racconta del suo sguardo: mille foto sparse ovunque insieme ad altri oggetti, un caos ‘descrivibi­le’ solo a lui, capace di pescare lì in mezzo quello che cercava. Smith parlava di «densità dell’arte», necessaria presenza dei suoi lavori. Il reportage su Pittsburgh, sulle sue acciaierie, operai, cittadini, amministra­tori, strade e case, paesaggi e vita, in sostanza «l’anima di questa città industrial­e della Pennsylvan­ia», sarebbe dovuto durare poche settimane e invece andò avanti per tre anni, dal 55 al 57. Quasi una missione, del resto sempre presente nel suo curriculum: si ricordano i reportage Spanish Village in cui racconta questa piccola cittadina durante il franchismo oppure nei primi anni 70 Minimata viaggio in Giappone in cui documentò i tragici effetti dell’inquinamen­to da mercurio, dove peraltro scattò una delle sue foto più famose Pietà. A Pittsburgh dopo aver chiuso con Life (dopo un ennesimo diverbio), libero dal sistema degli incarichi (una vera cesura col mondo della stampa e dell’informazio­ne) e dopo la rottura con la moglie e i quattro figli, da qui il trasferime­nto a New York in un loft in cui si suonava il jazz, sua passione.

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Nella foto grande in alto una fotografia dal titolo «Forgiatore» (1955-1957); sotto «Bambini che giocano tra Colwell Street e Pride Street, Hill District» (19551957). Entrambi gli scatti sono del Carnegie Museum di Pittsburgh

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