VIA S. LEONARDO OFFRE IL FUTURO
Per «toccare sulla fronte il tempo che passa», come avrebbe detto Roberto Roversi, si percorra a Bologna via San Leonardo, tra via Zamboni e i viali, a ridosso dell’università americana e dietro Porta San Vitale. Ancora una trentina di anni fa era un luogo esemplare della messinscena urbanistica, visita obbligata per ogni forestiero curioso degli esiti della politica di riuso, conservazione e manutenzione connessa all’ideologia del centro storico per cui la nostra città è famosa in Europa. Una via dove, in virtù dell’intervento comunale, studenti e minuto popolo bolognese ancora convivevano in una situazione di perfetto equilibrio tra spazio pubblico (anche verde) e ambito privato, quasi si fosse ancora nella prima metà del secolo passato: la sezione del partito era accanto alla bottega, e il circolo degli anziani di fronte al giardinetto. Sullo sfondo, il campanile della chiesa — da cui la strada prende il nome — ricordava l’origine ecclesiale dell’idea stessa di quartiere (laica traduzione della pieve) che ancora oggi funziona da base per il funzionamento amministrativo della città.
Gli edifici sono oggi quelli di prima, anche se qualche funzione è mutata. Qualcosa però è cambiato in maniera evidente: chi risiede nella via e la popola è portatore di una cultura diversa da quella petroniana, come si desume dal colore della pelle, quasi senza eccezione più scuro di quella di chi è nato in Italia da genitori italiani. Così pur essendo diventata un’altra cosa, via San Leonardo conserva la sua esemplarità, anche se mutata di segno, e perciò meriterebbe di tornare a essere, come fino a un quarto di secolo fa, la meta di visite guidate. Essa non è più la marca della cristallizzazione della Bologna ottocentesca, la vetrina della filosofia del piano Cervellati. Ma il segnale di una necessità rivolta al futuro e non al passato: quella, sempre più urgente, di costruire una nuova idea di Bologna, per una città che già esiste sotto i nostri occhi ma che è molto diversa dall’immagine che ne abbiamo, perché non ne abbiamo in testa il modello. Dopotutto, l’idea che una città sia qualcosa di astratto, distinta sia da chi governa sia da chi è governato, è un’idea bolognese, frutto del lavorio dei glossatori e commentatori del medioevo. Senza di essa lo Stato moderno non sarebbe mai nato. Ora come nel medioevo di questo si ha più bisogno che mai: non di una nuova narrazione, come si ripete, ma di una teoria generale della città. Della nostra città.