Quando il sogno è mancato
Èil 1977, un dodicenne scopre il catalogo di una mostra sui cosiddetti gabinetti delle meraviglie, con all’interno un biglietto importante, che forse svelerà a lui — del Minnesota — alcuni importanti segreti della sua vita, nascosti a New York. Parallelamente, il film ci racconta che nel 1927, in New Jersey, una ragazzina sorda, appassionata di un’attrice del muto, compie un viaggio simile al suo, a Manhattan, inseguendo la diva. I due personaggi sono legati, a cinquant’anni di distanza, da echi misteriosi. Capita talvolta di trovarsi di fronte al «grande film mancato», cioè un’opera che sulla carta avrebbe tutto per essere riuscita e intelligente e che per qualche ragione è rimasta invece lettera (quasi) morta.
A inciampare stavolta è Todd Haynes, regista di raffinata erudizione cinefila (Lontano dal Paradiso, Carol), che immagina un percorso di crescita personale di due ragazzini distanziati da mezzo secolo, e legata al fascino dell’archeologia del cinema, tra wunderkammer, cinema muto e musei di cultura visuale. Tutto quello che era magica evocazione nel volume illustrato di Brian Selznick (da cui Martin Scorsese aveva tratto ben altro risultato con Hugo Cabret) diviene qui macchinoso e non spontaneo, fors’anche a causa di due piccoli attori legnosi e mal diretti — per non parlare del trucco sui volti degli attori invecchiati, che nel caso di Julianne Moore diventa purtroppo ridicolo involontario.
Sono dettagli, ovviamente, e nessuno nega la profondità di Haynes, la sua sensibilità e il massimo rispetto per la sua grande filmografia. Però è anche onesto ammettere la scarsa ispirazione che ha sostenuto quest’opera, presentata a Cannes ormai nel 2017 e non a caso distribuita da noi solo ora, nei vuoti estivi.