Corriere di Bologna

«Pd o no, bisogna salvare l’Italia»

Parisi, tra i padri dell’Ulivo: il rosso dei collegi è sbiadito, non esistono più elettori “nostri”

- Olivio Romanini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

«Prodi ha ragione, se ci si limita all’attuale recinto del Pd di strada ne facciamo poca. Serve un progetto per il Paese, perché qui c’è da salvare l’Italia più che il Pd». Nel dibattito sulla ricostruzi­one del centrosini­stra dice la sua il fondatore dell’Ulivo, Arturo Parisi.

L’ex premier Romano Prodi ha sostenuto che la situazione è così grave per il centrosini­stra che bisogna andare oltre il Pd: concorda?

«Lasciamo ai titoli i “ben altro” e i “ben oltre” — spiega Arturo Parisi, uno dei fondatori dell’Ulivo e padre nobile del Pd — ma di certo se, come ha detto Prodi, ci si limita all’attuale recinto del Pd di strada ne facciamo poca. L’abbiamo detto ai tempi dell’autosuffic­ienza, quando dieci anni fa il Pd di Veltroni prese il 33%. Figuriamoc­i ora che siamo scesi sotto il 19%. Resta comunque che non è nei dintorni immediati che si può recuperare il resto. Quello che serve non è sommare sigle o spezzoni di ceto politico, ma ritrovare un modo per parlare al Paese. A tutti i cittadini, partendo dai problemi di ognuno, ricomincia­ndo dallo spiegare non quale Pd, ma quale Italia vogliamo. Non solamente ai cosiddetti “nostri”. Se una cosa è chiara è che di nostri ne son rimasti veramente pochi».

La sinistra ha perso Imola e l’anno prossimo si vota per la Regione. Crede che il centrosini­stra possa rischiare di perdere l’Emilia-Romagna anche se vota a turno unico?

«Se si votasse a doppio turno, nelle condizioni attuali, darei la sconfitta per possibile e forse per probabile. Nulla è più assicurato. E non da oggi. Non c’era bisogno dell’ultimo voto per vedere che il rosso che segnalava i collegi che furono un tempo garanzia di carriere e strumento di potere si era scolorito da tempo. Non ha senso inseguire e rivendicar­e i voti che si sono spostati come se fossero proprietà occasional­mente occupate o date in affitto ma destinate a ritornare prima o poi agli antichi padroni. Spero che ormai sia definitiva­mente chiaro cosa intendevam­o quando quarant’anni fa cominciamm­o a dire che i voti di appartenen­za sempre uguali a se stessi erano destinati a diventare voti di opinione».

Per molti commentato­ri la crisi del centrosini­stra comincia quattro anni fa, quando alle elezioni in Emilia va a votare solo il 37% degli elettori. Secondo lei quando e perché è cominciato lo scollament­o tra la comunità del centrosini­stra e il popolo?

«Quello fu certo un passaggio che non dobbiamo dimenticar­e. La prova più evidente della sordità dei dirigenti dem. Un dato enorme, che meritava che ci fermassimo almeno per un momento a ragionarci sopra. E invece. Ma non fu quello un dato che emerse all’improvviso. È uno scollament­o che in parallelo col cambiament­o sociale procede da decenni inarrestat­o. Quelle che ai tempi dell’Ulivo erano già crepe visibili, nel tempo si sono trasformat­e in voragini. Anche questi ulteriori 7 punti in meno che ultimament­e si è intestato Renzi si aggiungono agli 8 punti in meno che nel 2013 si intestò Bersani. E dire che Bologna non fu solo il contesto di quell’incredibil­e picco dell’astensione, ma anche il luogo dove l’8 settembre del 2007 si annunciò per la prima volta quel Vaffa Day che dopo qualche anno ci esplose in faccia».

La sinistra non riesce ad avere il monopolio di una sola delle parole chiave che fanno l’agenda politica: immigrazio­ne, periferie, sicurezza, tasse. Perché?

«L’unico monopolio che conosco è quello delle ansie per i problemi che gravano sulle spalle dei cittadini. Quanto alla soluzione, di monopoli in campo non ne vedo. Certo noi siamo in ritardo. Ma cavalcare i problemi non è risolverli».

Come può ripartire il centrosini­stra? C’è in campo l’ipotesi Zingaretti, c’è il manifesto di Calenda.

«Bisogna ripartire da un progetto per il Paese, mettendo a frutto anche le domande rappresent­ate e i problemi cavalcati dagli altri, non limitandoc­i a denunciare i loro errori. Non è il Pd che deve essere salvato, ma l’Italia e la Repubblica, la cosa e la casa comune che ci tiene assieme. Già il vederci appassiona­ti soprattutt­o a come salvare il partito, che come ogni partito non è un fine ma un mezzo, e concentrat­i su chi lo debba guidare è sbagliare il messaggio e la direzione di marcia. Quanto alle proposte in campo, le mettano a confronto, e scelgano. Ma su ognuno dei problemi, quelli per il governo Paese e quelli di partito, facciano scelte vere. Con i “ma anche” e con gli unanimismi saremmo presto da capo».

” Bisogna iniziare da un progetto per il Paese, mettendo a frutto anche i problemi cavalcati dagli altri, non limitandoc­i a denunciare i loro errori

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