Lettere e scuse Le mosse (false) dei fratelli Savi
Non è la prima volta che si spalancano le porte del carcere per uno dei killer della banda della Uno Bianca. Ma Marino Occhipinti è il primo ergastolano a tornare libero e l’indignazione tra i familiari delle vittime questa volta potrebbe scavare un solco incolmabile, già puntellato negli ultimi dieci anni da permessi e trasferimenti per gli ex killer.
Prima di Occhipinti è tornato libero Pietro Gugliotta. Poliziotto anche lui, non si macchiò degli omicidi come fecero gli altri ma fu condannato solo per le rapine a 14 anni di carcere. Ne è uscito nel 2008. «Non ha ucciso, ma non possiamo dimenticare. Spero che non sia un “apriporta” per gli altri, gli assassini», disse all’epoca Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione delle vittime. Non è stato Gugliotta ad aprire le porte agli altri, ma la legge italiana non prevede il fine pena mai. Ogni volta però è sale sulle ferite dei parenti delle 24 vittime e dei 102 feriti, che non hanno potuto perdonare che a compiere quei delitti fossero uomini che indossavano una divisa. Subito dopo la scarcerazione di Gugliotta, Occhipinti ottenne permessi premio per
Il perdono
Fabio, l’unico a non indossare la divisa, ha più volte chiesto perdono pubblicamente ma le sue scuse non sono state mai accettate
incontrare i familiari e prendere parte a funzioni religiose, in un percorso accompagnato dal ravvedimento a cui però l’associazione dei familiari non ha mai creduto, fino ad ottenere la semilibertà e, un anno fa, di partecipare a un ritiro spirituale di una settimana con Comunione e Liberazione in Valle d’Aosta. Ma Occhipinti si è sempre distinto dai fratelli Savi, con un atteggiamento più sobrio e rispettoso.
Fabio, l’unico che non indossava una divisa, ha più volte chiesto perdono pubblicamente ma le sue uscite sono sempre state considerate strumentali, suscitando scandalo e fastidio nell’associazione dei familiari. Nel carcere di Voghera entrò in sciopero della fame per chiedere di essere trasferito in una struttura più vicina alla sua famiglia, cosa che ottenne per un certo periodo, con il trasferimento a Spoleto. Le sue richieste di permessi, però, sono sempre state rigettate, come quelle di Roberto, il maggiore dei tre. Nell’autunno 2017, poi, è stata di nuovo accolta la richiesta di Fabio di essere trasferito dal carcere di Uta, a Cagliari, in una struttura in cui potesse svolgere attività lavorativa per aiutare la famiglia fuori. È stato spostato per alcuni mesi a Bollate, in provincia di Milano, ma quando le proteste dell’associazione dei familiari sono scoppiate, perché nello stesso carcere è detenuto anche Roberto, il caso è finito sul tavolo dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando, che ha chiesto lumi al Dap e infine Fabio Savi è stato spostato nel carcere di Varese.
Ma come Occhipinti, anche Alberto Savi, il più giovane anche lui ex poliziotto, ha già ottenuto permessi premio e intrapreso un percorso di ravvedimento che, dopo 23 anni in carcere, potrebbe portarlo a ottenere la libertà condizionale. A febbraio 2017 è uscito per dodici ore per incontrare un frate in una comunità religiosa, dopo che nel 2016 aveva chiesto perdono in una lettera a monsignor Matteo Maria Zuppi. Già in quell’occasione la reazione di Anna Maria Stefanini, madre di uno dei carabinieri uccisi dalla banda al Pilastro, fu durissima: «Spero che il giudice che gli ha concesso il permesso abbia dei figli. Devono gettare la chiave». A Pasqua di quest’anno, poi, Alberto ha ottenuto di uscire per tre giorni che ha trascorso con la sua compagna. Ai cronisti che lo hanno avvicinato in quell’occasione ha detto solo: «Rischiamo di fare male a troppe persone».
Riavvicinamento
Fabio e Roberto sono stati nello stesso carcere per un po’ a Bollate nel 2017, decisione revocata per le proteste dei parenti delle vittime Appello a Zuppi Alberto nel 2016 aveva scritto una lettera all’arcivescovo di Bologna