IL NUOVO TRIANGOLO INDUSTRIALE
Vive in EmiliaRomagna, Lombardia e Veneto — le tre regioni del nuovo Triangolo industriale — circa un terzo della popolazione italiana. Il loro peso poi sale al 40 per cento quando si esamina il contributo che le tre regioni apportano al prodotto interno lordo (Pil) del Paese. Ma non si fermano qui e salgono ancora più su: difatti, esse arrivano a rappresentare la metà abbondante delle esportazioni italiane (il 54% a fine 2017). Siamo difronte a una sorta di crescendo rossiniano man mano che passiamo dalle variabili di base a quelle che rappresentano lo spirito imprenditoriale di un territorio.
Risultati di questa portata, lungi dal rappresentare il frutto di eventi casuali, dipendono da economie regionali che hanno saputo conservare una robusta base manifatturiera e coltivare una spiccata vocazione all’export. Caratteristiche, queste, strettamente correlate e che, a loro volta, portano in rilievo l’autentica protagonista del libero mercato: l’impresa, «la macchina dell’innovazione» per dirla con William J. Baumol.
Nelle tre regioni del nuovo Triangolo hanno sì il loro quartier generale la maggior parte delle (poche) multinazionali del Paese, ma soprattutto sono basati in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto decine e decine di distretti industriali responsabili della maggioranza (il 58,5%) dell’export distrettuale italiano.
Ampiamente condivisa è l’opinione che fra i rilevanti cambiamenti che negli ultimissimi anni (decenni) hanno interessato i distretti, vi sia proprio quello legato alle dimensioni delle imprese leader. Si è venuta a creare una sorta di gerarchia fra imprese con una élite che ha assunto la leadership del sistema produttivo locale in cui opera. L’universo delle «medie imprese industriali italiane» portate alla luce dalla nota indagine Mediobanca-Unioncamere rappresenta una delle conferme più solide di questa tendenza. Dall’ultima edizione (novembre 2017), che copre i bilanci aziendali fino al 2015, possiamo vedere come in Lombardia ve ne siano 1.035 di queste medie imprese, cui sommare le 608 del Veneto e le 501 dell’Emilia-Romagna: numeri (2.144) che significano il 63,5% del totale nazionale (quest’ultimo pari a 3.376 medie imprese). Insomma, il crescendo rossiniano continua. È lo stesso rapporto Mediobanca-Unioncamere ad annotare che «la dislocazione è sintomatica della prevalente emersione dai luoghi distrettuali, con un’evidente concentrazione nell’area subalpina e nella pianura padana, in particolare lungo la direttrice della via Emilia». La meccanica è il settore prevalente un po’ dappertutto; seguono poi tutti gli altri settori tipici del made in Italy e non mancano specializzazioni come il «chimico e farmaceutico». Le performance economiche, patrimoniali e occupazionali di queste imprese sono rilevanti, sia se viste nell’ultimo periodo (2010-2015), quando hanno segnato un importante recupero sul 2009, sia se viste in una prospettiva di medio periodo (1996-2015), i vent’anni cioè che hanno contribuito ad affermare il loro ruolo all’interno del capitalismo italiano. Un capitalismo che in questi stessi decenni si è caratterizzato, da un lato, per la scomparsa della grande impresa (ivi compresa quella legata alle Partecipazioni statali) e, dall’altro, per le nuove difficoltà sperimentate dalle imprese di ridotte dimensioni (le «micro» sotto i 10 addetti). È bene ricordare, in conclusione, quali siano le quattro caratteristiche che qualificano un’impresa come «media»: una forza lavoro compresa tra 50 e 499 addetti; un volume di vendite non inferiore a 16 e non superiore a 355 milioni di euro; un assetto proprietario autonomo riconducibile al controllo familiare; l’appartenenza al comparto manifatturiero. Certo, non sono dei giganti, ma sono imprese che — grazie alla crescita — hanno ora spalle più larghe per svolgere con maggiore efficacia le due attività strategiche sempre più fondamentali: l’innovazione tecnologica e la proiezione sui mercati esteri. Non è un caso che le tre regioni del nuovo Triangolo esprimano la più elevata concentrazione sia di distretti sia di medie imprese e che, nel contempo, le stesse regioni siano le prime tre nella graduatoria dell’export italiano.