IL MODELLO «GRANDE BOLOGNA»
Ronde organizzate da forze di destra pattugliano di notte, sul litorale romagnolo, le spiagge di Miramare. A Bologna il Consiglio metropolitano approva il Piano strategico metropolitano 2.0, alla fine di un processo iniziato nel 2016 che ha coinvolto istituzioni, aziende partecipate e una moltitudine di attori economici e sociali. Il sindaco Merola convoca cinque colleghi da tutta Italia, per ripartire dalle città e costruire un’alternativa al governo di centro destra. Il governatore Bonaccini incontra il ministro per gli Affari regionali, allo scopo di riprendere il discorso sull’autonomia dell’EmiliaRomagna dopo la preintesa siglata con il precedente governo. Tutto questo nell’ultima settimana. Così come Bologna è la città italiana dove più si parla, a livello pubblico, di città, allo stesso modo la nostra regione si segnala per la particolare e avvertita tensione che riguarda il nesso tra azione politica e forma e costituzione del territorio. Questo accade per radicate ragioni storiche che non è qui il caso di ricordare, se non per ribadire come ancora ai nostri giorni esse agiscano potentemente sul presente, predisponendo il futuro. Si sbaglierebbe nel ridurre l’articolazione delle iniziative appena citate ad una semplice questione di scala, che dalla piccola spiaggia arrivi alla messa in discussione dell’assetto dell’intero stato nazionale. In tal modo si perderebbe di vista la cosa più importante, la differenza delle loro logiche.
Il pattugliamento esprime il modo più rozzo e immediato di definizione territoriale, il grado zero della pratica alla base proprio del modello, quello dello stato centralizzato, che sia Regione che Comune propongono di superare con le proprie proposte. L’autonomia regionale si basa sul trasferimento di funzioni e attribuzioni fin qui in capo allo Stato. E il Piano strategico metropolitano appena approvato (il primo «atto d’indirizzo» al riguardo in campo nazionale, dunque per forza esemplare) si fonda prima d’altro sulla concezione della Grande Bologna come federazione di Comuni. Entrambe le forme nascono dal riconoscimento della necessità di superare il modello moderno fondato sulla continuità del territorio, sulla sua omogeneità e sul suo isotropismo, cioè sull’esistenza di un’unica direzione di riferimento funzionale. Tale necessità è imposta da una ragione: la problematica natura delle relazioni tra stati e quel complesso di fenomeni definito, nel suo insieme, come globalizzazione. Ma mentre il piano metropolitano e la richiesta di autonomia regionale mettono in discussione e relativizzano solo l’isotropismo, l’iniziativa di Merola è più radicale, e contiene il germe del completo sovvertimento del modello in questione, perché l’idea di un’alleanza larga tra i sindaci italiani sarebbe in grado di rovesciare (ove acquisisse effettiva consistenza) anche ogni continuità e ogni omogeneità d’ordine territoriale. Almeno così come sembra di poter capire da come essa è stata espressa. Si legge nel Piano metropolitano che la Grande Bologna, forte di un milione di abitanti e centomila imprese, deve diventare una Start Up Valley, un incubatore di nuove forme di dinamismo imprenditoriale. Intanto essa resta, comunque, un formidabile laboratorio di esperienze e formule politico-territoriali.