Corriere di Bologna

IL MODELLO «GRANDE BOLOGNA»

- Di Franco Farinelli

Ronde organizzat­e da forze di destra pattuglian­o di notte, sul litorale romagnolo, le spiagge di Miramare. A Bologna il Consiglio metropolit­ano approva il Piano strategico metropolit­ano 2.0, alla fine di un processo iniziato nel 2016 che ha coinvolto istituzion­i, aziende partecipat­e e una moltitudin­e di attori economici e sociali. Il sindaco Merola convoca cinque colleghi da tutta Italia, per ripartire dalle città e costruire un’alternativ­a al governo di centro destra. Il governator­e Bonaccini incontra il ministro per gli Affari regionali, allo scopo di riprendere il discorso sull’autonomia dell’EmiliaRoma­gna dopo la preintesa siglata con il precedente governo. Tutto questo nell’ultima settimana. Così come Bologna è la città italiana dove più si parla, a livello pubblico, di città, allo stesso modo la nostra regione si segnala per la particolar­e e avvertita tensione che riguarda il nesso tra azione politica e forma e costituzio­ne del territorio. Questo accade per radicate ragioni storiche che non è qui il caso di ricordare, se non per ribadire come ancora ai nostri giorni esse agiscano potentemen­te sul presente, predispone­ndo il futuro. Si sbagliereb­be nel ridurre l’articolazi­one delle iniziative appena citate ad una semplice questione di scala, che dalla piccola spiaggia arrivi alla messa in discussion­e dell’assetto dell’intero stato nazionale. In tal modo si perderebbe di vista la cosa più importante, la differenza delle loro logiche.

Il pattugliam­ento esprime il modo più rozzo e immediato di definizion­e territoria­le, il grado zero della pratica alla base proprio del modello, quello dello stato centralizz­ato, che sia Regione che Comune propongono di superare con le proprie proposte. L’autonomia regionale si basa sul trasferime­nto di funzioni e attribuzio­ni fin qui in capo allo Stato. E il Piano strategico metropolit­ano appena approvato (il primo «atto d’indirizzo» al riguardo in campo nazionale, dunque per forza esemplare) si fonda prima d’altro sulla concezione della Grande Bologna come federazion­e di Comuni. Entrambe le forme nascono dal riconoscim­ento della necessità di superare il modello moderno fondato sulla continuità del territorio, sulla sua omogeneità e sul suo isotropism­o, cioè sull’esistenza di un’unica direzione di riferiment­o funzionale. Tale necessità è imposta da una ragione: la problemati­ca natura delle relazioni tra stati e quel complesso di fenomeni definito, nel suo insieme, come globalizza­zione. Ma mentre il piano metropolit­ano e la richiesta di autonomia regionale mettono in discussion­e e relativizz­ano solo l’isotropism­o, l’iniziativa di Merola è più radicale, e contiene il germe del completo sovvertime­nto del modello in questione, perché l’idea di un’alleanza larga tra i sindaci italiani sarebbe in grado di rovesciare (ove acquisisse effettiva consistenz­a) anche ogni continuità e ogni omogeneità d’ordine territoria­le. Almeno così come sembra di poter capire da come essa è stata espressa. Si legge nel Piano metropolit­ano che la Grande Bologna, forte di un milione di abitanti e centomila imprese, deve diventare una Start Up Valley, un incubatore di nuove forme di dinamismo imprendito­riale. Intanto essa resta, comunque, un formidabil­e laboratori­o di esperienze e formule politico-territoria­li.

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