«Sono stato colpito da Gadda»
Paolo Giordano racconta il suo nuovo romanzo «Divorare il cielo» (Einaudi) che presenterà oggi all’Archiginnasio all’interno della rassegna «Stasera Parlo io» in dialogo con Silvia Avallone
Èstrano il destino dei libri e dei loro autori. Vengono spesso incasellati in un’immagine, un colore particolare, uno stereotipo. Paolo Giordano, dal suo romanzo d’esordio, La solitudine dei numeri primi,
subito vincitore del premio Strega nel 2008, è stato battezzato scrittore dell’adolescenza. E così dell’ultimo suo romanzo Divorare il cielo (Einaudi) sono stati sottolineati gli aspetti che entrano in quella visone, spesso legati ai primi momenti di un libro articolato, lungo più di 400 pagine.
Giordano sarà alle 21 nel cortile dell’Archiginnasio per la rassegna «Stasera parlo io», in dialogo con un’altra giovane scrittrice, Silvia Avallone. Racconterà e discuterà la storia di Teresa che vede tre giovani figure infiltrarsi di notte nella piscina della masseria della nonna in Puglia e di come lei, torinese, si senta fortemente attratta da quei «ragazzi selvaggi», e di tutto quello che ne consegue, tra terra, rossa, da lavorare, cielo, da assaltare con i sogni, anzi da «divorare» con ansia di esperienze e forse di assoluto, mare, che nasconde a volte un destino di dolore e morte.
Questo libro è stato presentato come una «rinascita» dopo quello d’esordio, quasi come se nei dieci anni trascorsi lei non avesse scritto altri due romanzi.
«Non so perché. Si innestano delle semplificazioni, certi collegamenti vanno fuori controllo, si fanno interviste basate su precedenti interviste. È vero però che questo romanzo è una riconciliazione con il mio punto di partenza».
In che senso?
«Perché sono tornato a una
” Questo romanzo è una riconciliazi one con il mio punto di partenza. Perché sono tornato a una scrittura più spoglia, più nuda, quella dell’inizio, con in più la maggiore complessità acquisita con gli anni.
scrittura più spoglia, più nuda, quella dell’inizio, con in più la maggiore complessità acquisita con gli anni».
È la storia di una crescita?
«Direi di più crescite, di un amore e di una serie di amicizie. E di come le relazioni cambiano nel crescere».
Per i metodi di coltivazione usati nella comune che Teresa troverà nella masseria degli amici qualche anno dopo i primi incontri adolescenziali lei cita La rivoluzione del filo di paglia di Fukuoka. Il lasciare la terra produrre senza intervenire. Qualcosa che, come molti rapporti, nel libro dovrà essere abbandonato. È un fallimento dell’idea che le piante selvagge possano prosperare?
«Io trovo affascinanti certi approcci moderni, idealistici, alle questioni ambientali. Mi colpisce il misto tra idealismo e concretezza tecnico-scientifica. La permacultura è legata a Fukuoka e va oltre, nel mettere gli ideali etici davanti a tutto senza rinunciare a sfruttare quello che il progresso mette a disposizione. Poi è vero che, come nel romanzo, si devono spesso ridimensionare le spinte».
Che qui sono a un’agricoltura naturale, al collettivismo perfino, in modi diversi, a una religiosità profonda e panteistica, negata poi da una anarchica ribellione alle norme, con vari fallimenti.
«Spesso la lotta a cambiare il mondo è persa, ma posso rivolgere le energie a quel pezzo di terra, con gli ulivi, che ho intorno. È oggi il modo di vivere di molti giovani adulti».
È simile al «coltivare il proprio orto» del finale del “Candido” di Voltaire?
«Sono molto legato a quel libro. Ma in questo caso è anche la necessità di curare sé stessi prima che rivolgersi alla cosa pubblica».
Come mai sceglie la Puglia per l’ambientazione?
«È un luogo che ho frequentato molto negli ultimi anni, anch’io da forestiero, da torinese, come Teresa. C’è un rapporto approfondito con le cose, con la terra, specifico del Sud, ma particolare di quel certo Sud, pieno di chiaroscuri affascinanti. La Puglia è un laboratorio di molti esperimenti sociali, sociologici, per quanto possa sembrare ancorata al passato».
Teresa e Bern sono i protagonisti. In lui, con il suo carisma, le sue fughe, i suoi furori, la sua anarchia, c’è qualcosa di dostoevskiano?
«Amo Dostoevskij e l’ho riletto prima di scrivere il romanzo. Ma sono stato forte- mente colpito anche dalla Cognizione del dolore di Gadda, con quel suo sguardo dall’esterno».
Come quello di Teresa, affascinata e forse intimorita da quei tre sconosciuti seminudi nella piscina di notte…
«In lei c’è l’aspirazione a subire l’ascendente di qualcuno. Poi la vita va avanti, e si perde la capacità di subire il fascino. Per me questo è un momento di grande trasformazione».
Paolo Giordano scrittore dell’adolescenza, delle sue inquietudini, dei suoi sogni e dolori?
«Questo non è un romanzo sull’adolescenza. I personaggi hanno 25-30 anni: sono dei giovani adulti. Certo l’adolescenza e la post-adolescenza sono affascinanti, in quanto momenti magmatici in cui si va a formare la vita».