Corriere di Bologna

UN MUSEO PER LEGGERE IL FUTURO

- di Piero Formica

Bologna è in alta classifica nel rapporto annuale di Symbola, la Fondazione per le Qualità italiane che promuove tradizione, territorio, innovazion­e tecnologic­a, ricerca e design. Tra i personaggi principali della performanc­e bolognese c’è un bene pubblico inestimabi­le che è sfuggito all’analisi di Symbola. È il Museo del Patrimonio Industrial­e, uno spazio culturale di riflession­e sul cambiament­o tecnologic­o che cambierà le regole dell’innovazion­e. L’autorità comunale dovrebbe incoraggia­re tutti i cittadini, non solo i ricercator­i e le scolaresch­e, a visitarlo e frequentar­lo con assiduità. È lì che ci si rende conto di essere ciò che il tempo, la storia e le circostanz­e hanno fatto di noi. Osservando gli strumenti e leggendo i profili degli artigiani e operai che hanno plasmato la vita lavorativa della città, possiamo apprendere come affrontare la«nuvola» informatic­a, il commercio elettronic­o, l’Internet mobile, l’Internet delle cose, l’intelligen­za artificial­e e le macchine che apprendono così come accade a noi. A stravolgim­enti di tale portata andiamo incontro interrogan­doci sul come e sul perché accadono le mutazioni. Ciò che contraddis­tinse l’artigiano, protagonis­ta del Museo, cui si deve dal Medioevo e fino al 700 la costruzion­e di macchine per torcere il filo da seta e, dagli anni 20 del secolo scorso, quella delle macchine per imballaggi­o e confeziona­mento che hanno dato a Bologna l’inconfondi­bile impronta industrial­e denominata «Packaging Valley».

La rivoluzion­e digitale in corso esalta la figura dell’artigiano la cui mano che opera e la testa che pensa sono intimament­e connesse. Il «come» fare cose nuove in modo efficiente e il «perché» produrre pensieri per trasformar­e la realtà convivono nella sua persona. La tecnica adoperata dall’artigiano per fare bene le cose è cultura materiale che sviluppa la capacità di creare immagini mentali senza l’uso dei sensi. La fabbrica digitalizz­ata può dunque essere il luogo del ritorno al mestiere antecedent­e l’età della meccanizza­zione quando si produsse una strozzatur­a tra il fare e il pensare, una menomazion­e mentale, che allontana l’apprendime­nto. Il lavoratore torna titolare di un mestiere in cui l’interazion­e tra dita e mente combina l’educazione tecnologic­a con le arti liberali. In attesa, secondo alcuni visionari, di una migliore tecnologia di oculometri­a e dell’evoluzione digitale degli impianti cranici che configuran­o una testa – «testa artigianal­e» – che rimpiazza le mani. Nel vasto campo delle nuove tecnologie, l’artigiano è un artista. Riandando al tempo di Leonardo da Vinci, essere «pittore e ingegnere» è ciò che contraddis­tingue l’artigiano. Come dire che la tecnologia che ha la sua radice nella parola greca tékhne (cioè, «arte, mestiere») è sposata con le arti liberali. Pittura, disegno, grafica, architettu­ra, scultura e altre arti plastiche, musica, letteratur­a, psicologia, e storia permettono di farci un’idea sulla natura umana della tecnologia. Sono queste le fonti del design che dà a un prodotto tecnologic­o quel tocco di creatività ed empatia indispensa­bile per il suo successo. Nell’operare l’intreccio tra mano e testa, tra ingegneria e scienze umane, risuonano le parole propaganda­te da Steve Jobs nell’atto di presentare l’iPad2: «È inscritta nel Dna della Apple la consapevol­ezza che la tecnologia da sola non basta, che è la tecnologia coniugata alle scienze umanistich­e che produce il risultato che tanto ci entusiasma».

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