UN MUSEO PER LEGGERE IL FUTURO
Bologna è in alta classifica nel rapporto annuale di Symbola, la Fondazione per le Qualità italiane che promuove tradizione, territorio, innovazione tecnologica, ricerca e design. Tra i personaggi principali della performance bolognese c’è un bene pubblico inestimabile che è sfuggito all’analisi di Symbola. È il Museo del Patrimonio Industriale, uno spazio culturale di riflessione sul cambiamento tecnologico che cambierà le regole dell’innovazione. L’autorità comunale dovrebbe incoraggiare tutti i cittadini, non solo i ricercatori e le scolaresche, a visitarlo e frequentarlo con assiduità. È lì che ci si rende conto di essere ciò che il tempo, la storia e le circostanze hanno fatto di noi. Osservando gli strumenti e leggendo i profili degli artigiani e operai che hanno plasmato la vita lavorativa della città, possiamo apprendere come affrontare la«nuvola» informatica, il commercio elettronico, l’Internet mobile, l’Internet delle cose, l’intelligenza artificiale e le macchine che apprendono così come accade a noi. A stravolgimenti di tale portata andiamo incontro interrogandoci sul come e sul perché accadono le mutazioni. Ciò che contraddistinse l’artigiano, protagonista del Museo, cui si deve dal Medioevo e fino al 700 la costruzione di macchine per torcere il filo da seta e, dagli anni 20 del secolo scorso, quella delle macchine per imballaggio e confezionamento che hanno dato a Bologna l’inconfondibile impronta industriale denominata «Packaging Valley».
La rivoluzione digitale in corso esalta la figura dell’artigiano la cui mano che opera e la testa che pensa sono intimamente connesse. Il «come» fare cose nuove in modo efficiente e il «perché» produrre pensieri per trasformare la realtà convivono nella sua persona. La tecnica adoperata dall’artigiano per fare bene le cose è cultura materiale che sviluppa la capacità di creare immagini mentali senza l’uso dei sensi. La fabbrica digitalizzata può dunque essere il luogo del ritorno al mestiere antecedente l’età della meccanizzazione quando si produsse una strozzatura tra il fare e il pensare, una menomazione mentale, che allontana l’apprendimento. Il lavoratore torna titolare di un mestiere in cui l’interazione tra dita e mente combina l’educazione tecnologica con le arti liberali. In attesa, secondo alcuni visionari, di una migliore tecnologia di oculometria e dell’evoluzione digitale degli impianti cranici che configurano una testa – «testa artigianale» – che rimpiazza le mani. Nel vasto campo delle nuove tecnologie, l’artigiano è un artista. Riandando al tempo di Leonardo da Vinci, essere «pittore e ingegnere» è ciò che contraddistingue l’artigiano. Come dire che la tecnologia che ha la sua radice nella parola greca tékhne (cioè, «arte, mestiere») è sposata con le arti liberali. Pittura, disegno, grafica, architettura, scultura e altre arti plastiche, musica, letteratura, psicologia, e storia permettono di farci un’idea sulla natura umana della tecnologia. Sono queste le fonti del design che dà a un prodotto tecnologico quel tocco di creatività ed empatia indispensabile per il suo successo. Nell’operare l’intreccio tra mano e testa, tra ingegneria e scienze umane, risuonano le parole propagandate da Steve Jobs nell’atto di presentare l’iPad2: «È inscritta nel Dna della Apple la consapevolezza che la tecnologia da sola non basta, che è la tecnologia coniugata alle scienze umanistiche che produce il risultato che tanto ci entusiasma».