Corriere di Bologna

NUOVO PD NON BASTA IL RESTYLING

- Di Enrico Franco

La tentazione è sempre forte, la storia non insegna: quando le urne ti bocciano, la soluzione più rapida è una rivernicia­ta di fresco. La casa è sempre quella, ma le si cambia l’aspetto esterno (magari leggerment­e per non perdere gli antichi abitanti) sperando che gli elettori non si accorgano del trucco. Purtroppo le scorciatoi­e non pagano: se il restyling si ferma alla facciata senza incidere sulla struttura, il lavoro dà miseri risultati. Elisabetta Gualmini è una politologa prima che una politica, quindi lo sa bene. È dunque probabile che, nell’intervista al Corriere di Bologna di venerdì scorso, non abbia svelato l’intero disegno che ha in mente. Perché non basta rendere il Pd dell’Emilia-Romagna più autonomo dal partito nazionale per ritrovare appeal: occorre guarirlo dai suoi difetti così simili a quelli romani.

I riferiment­i al partito socialista catalano e alla Csu bavarese sembrano un po’ azzardati, in quanto entrambi prosperati in regioni che hanno una tradizione forte ben distinta da quella nazionale, mentre la nostra vocazione autonomist­ica è decisament­e più recente, motivata da ragioni amministra­tive, non identitari­e. C’è poi un altro problema ben evidenziat­o dal deputato ferrarese Luigi Marattin: «Di solito — ha detto causticame­nte al Corriere di domenica — un partito regionale chiede di staccarsi quando va meglio di quello nazionale. Non mi pare sia questo il caso».

Di più: il Pd emiliano non può dirsi «altra cosa», poiché inevitabil­mente (per il suo peso nonché per il valore delle sue donne e dei suoi uomini) ha sempre avuto ruoli importanti nelle stanze del potere italiano. Non a caso, Elisabetta Gualmini precisa di non pensare a una struttura separata o a un tesseramen­to autonomo, bensì «a un laboratori­o che esalti la forza del Pd in Emilia-Romagna». Sorvoliamo pure sugli esiti del 4 marzo con i dem superati dal movimento 5 stelle o sul ribaltone di Imola dove ora c’è una sindaca cinquestel­le, o ancora sulle regionali del 2014 con l’affluenza ridotta al 37,71% o sul sindaco di Bologna rieletto soltanto al ballottagg­io. E non insistiamo neppure sul fatto che sul tavolo del «laboratori­o» occorre mettere contenuti precisi, come ha ben evidenziat­o Olivio Romanini nel nostro editoriale di sabato. Concentria­moci invece sul fatto che i democratic­i locali soffrono della stessa malattia, seppur in forma più lieve, dei loro fratelli italiani: progressiv­o distacco dei vertici dalla base elettorale e continua lotta tra correnti e relativi capi. Non solo: qui più che altrove, il Pd è il pilastro di un sistema di potere capace di estendersi in tutta la società. Insomma, è la «casta» anche se fortunatam­ente, dopo le sbandate passate, mantiene ora un profilo popolare, rifuggendo dalle auto blu e dai privilegi.

Il primo passo da compiere, allora, dev’essere quello di ricostruir­e un’unità interna che significa azzerare i personalis­mi e le singole ambizioni, non la diversità di idee e sensibilit­à. Parallelam­ente, occorre riprendere il contatto con la realtà, per evitare di scoprire grazie a television­i e giornali che al circolo Arci Benassi la linea dem sull’immigrazio­ne non convince e il ministro dell’Interno Matteo Salvini invece raccoglie consensi. Gridare al razzismo (ahimè crescente) è necessario ma non sufficient­e: occorre una paziente opera di dialogo per convincere il maggior numero di persone che la ricerca di capri espiatori non è mai stata una buona soluzione e che non esistono risposte semplici a problemi complessi. È infine utile ricordare, per citare il titolo di un libro di Margaret Mazzantini, che «nessuno si salva da solo». Posto che è opportuno un maggior raccordo con le varie articolazi­oni settentrio­nali del Pd, gli emiliano-romagnoli dovrebbero spendersi pienamente per il rilancio del partito in tutta Italia. Non tanto rinunciand­o a un secondo mandato di Bonaccini da governator­e di Viale Aldo Modo (Imola nulla ha insegnato?) per fargli assumere la segreteria nazionale, quanto per indicare vie nuove in grado di far superare l’impasse: impresa ardua, d’accordo, tuttavia non impossibil­e. Si potrebbe ad esempio ripartire da quanto suggerì Romano Prodi nel 2010 per rianimare un Pd che mostrava debolezza, ossia dare una struttura federale al partito con i segretari regionali chiamati ad eleggere un coordinato­re nazionale. Un’idea che l’allora leader politico Pier Luigi Bersani sostenne inizialmen­te con convinzion­e: «Ritengo le consideraz­ioni di Romano Prodi — dichiarò – un contributo direttamen­te utile a illuminare non solo le possibili prospettiv­e di un partito come il nostro, ma la forma stessa degli assetti democratic­i del Paese». All’epoca prevalsero le vecchie logiche, oggi potrebbe essere il momento propizio per provare a voltare pagina.

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