NUOVO PD NON BASTA IL RESTYLING
La tentazione è sempre forte, la storia non insegna: quando le urne ti bocciano, la soluzione più rapida è una riverniciata di fresco. La casa è sempre quella, ma le si cambia l’aspetto esterno (magari leggermente per non perdere gli antichi abitanti) sperando che gli elettori non si accorgano del trucco. Purtroppo le scorciatoie non pagano: se il restyling si ferma alla facciata senza incidere sulla struttura, il lavoro dà miseri risultati. Elisabetta Gualmini è una politologa prima che una politica, quindi lo sa bene. È dunque probabile che, nell’intervista al Corriere di Bologna di venerdì scorso, non abbia svelato l’intero disegno che ha in mente. Perché non basta rendere il Pd dell’Emilia-Romagna più autonomo dal partito nazionale per ritrovare appeal: occorre guarirlo dai suoi difetti così simili a quelli romani.
I riferimenti al partito socialista catalano e alla Csu bavarese sembrano un po’ azzardati, in quanto entrambi prosperati in regioni che hanno una tradizione forte ben distinta da quella nazionale, mentre la nostra vocazione autonomistica è decisamente più recente, motivata da ragioni amministrative, non identitarie. C’è poi un altro problema ben evidenziato dal deputato ferrarese Luigi Marattin: «Di solito — ha detto causticamente al Corriere di domenica — un partito regionale chiede di staccarsi quando va meglio di quello nazionale. Non mi pare sia questo il caso».
Di più: il Pd emiliano non può dirsi «altra cosa», poiché inevitabilmente (per il suo peso nonché per il valore delle sue donne e dei suoi uomini) ha sempre avuto ruoli importanti nelle stanze del potere italiano. Non a caso, Elisabetta Gualmini precisa di non pensare a una struttura separata o a un tesseramento autonomo, bensì «a un laboratorio che esalti la forza del Pd in Emilia-Romagna». Sorvoliamo pure sugli esiti del 4 marzo con i dem superati dal movimento 5 stelle o sul ribaltone di Imola dove ora c’è una sindaca cinquestelle, o ancora sulle regionali del 2014 con l’affluenza ridotta al 37,71% o sul sindaco di Bologna rieletto soltanto al ballottaggio. E non insistiamo neppure sul fatto che sul tavolo del «laboratorio» occorre mettere contenuti precisi, come ha ben evidenziato Olivio Romanini nel nostro editoriale di sabato. Concentriamoci invece sul fatto che i democratici locali soffrono della stessa malattia, seppur in forma più lieve, dei loro fratelli italiani: progressivo distacco dei vertici dalla base elettorale e continua lotta tra correnti e relativi capi. Non solo: qui più che altrove, il Pd è il pilastro di un sistema di potere capace di estendersi in tutta la società. Insomma, è la «casta» anche se fortunatamente, dopo le sbandate passate, mantiene ora un profilo popolare, rifuggendo dalle auto blu e dai privilegi.
Il primo passo da compiere, allora, dev’essere quello di ricostruire un’unità interna che significa azzerare i personalismi e le singole ambizioni, non la diversità di idee e sensibilità. Parallelamente, occorre riprendere il contatto con la realtà, per evitare di scoprire grazie a televisioni e giornali che al circolo Arci Benassi la linea dem sull’immigrazione non convince e il ministro dell’Interno Matteo Salvini invece raccoglie consensi. Gridare al razzismo (ahimè crescente) è necessario ma non sufficiente: occorre una paziente opera di dialogo per convincere il maggior numero di persone che la ricerca di capri espiatori non è mai stata una buona soluzione e che non esistono risposte semplici a problemi complessi. È infine utile ricordare, per citare il titolo di un libro di Margaret Mazzantini, che «nessuno si salva da solo». Posto che è opportuno un maggior raccordo con le varie articolazioni settentrionali del Pd, gli emiliano-romagnoli dovrebbero spendersi pienamente per il rilancio del partito in tutta Italia. Non tanto rinunciando a un secondo mandato di Bonaccini da governatore di Viale Aldo Modo (Imola nulla ha insegnato?) per fargli assumere la segreteria nazionale, quanto per indicare vie nuove in grado di far superare l’impasse: impresa ardua, d’accordo, tuttavia non impossibile. Si potrebbe ad esempio ripartire da quanto suggerì Romano Prodi nel 2010 per rianimare un Pd che mostrava debolezza, ossia dare una struttura federale al partito con i segretari regionali chiamati ad eleggere un coordinatore nazionale. Un’idea che l’allora leader politico Pier Luigi Bersani sostenne inizialmente con convinzione: «Ritengo le considerazioni di Romano Prodi — dichiarò – un contributo direttamente utile a illuminare non solo le possibili prospettive di un partito come il nostro, ma la forma stessa degli assetti democratici del Paese». All’epoca prevalsero le vecchie logiche, oggi potrebbe essere il momento propizio per provare a voltare pagina.