Il caporalato del Nord in doppiopetto
La Cgil stima in 10.000 i lavoratori a rischio. Nel mirino allevamenti e vendemmia
In Emilia-Romagna, che è la regione con la quota più consistente di superficie coltivate a pomodoro da industria e dove la raccolta avviene quasi interamente con mezzi meccanici, la filiera dell’oro rosso sembra essere «salva» dal fenomeno del caporalato. Qui esiste però un caporalato diverso, fatto di consulenti del lavoro in giacca e cravatta che gestiscono la catena di subappalti che sfrutta 10.000 lavoratori impiegati in macelli, allevamenti e vendemmia.
Il comparto del pomodoro non è l’unico ad essere interessato dalla piaga economica e sociale del caporalato. Paradossalmente, nella nostra regione, dove la raccolta avviene quasi interamente con mezzi meccanici, è il meno toccato dal fenomeno. L’Emilia-Romagna piuttosto è la terra del cosiddetto nuovo caporalato, «una filiera di consulenti del lavoro in giacca e cravatta che gestisce ingegneristica mente le responsabilità delle imprese che si affidano ad una catena di appalti e subappalti apparentemente regolare». La denuncia arriva dal segretario generale della Flai-Cgil, Umberto Franciosi, che ieri sera ha partecipato, assieme ad altri rappresentanti del sindacato regionale alla marcia di solidarietà ai familiari dei sedici braccianti deceduti nei due incidenti stradali avvenuti nei giorni scorsi nella provincia di Foggia e che si è svolta nel capoluogo pugliese. Diversi i settori dell’ agroalimentare coinvolti da quello che Francio si chiama nuovo caporalato: caseifici, allevamenti avicoli, la macellazione delle carni e la raccolta della frutta. A cui si aggiunge tutta la logistica collaterale, e quindi i trasporti, «vera polveriera» del reclutamento irregolare di manodopera. Le province più colpite sono quelle di Modena, Reggio Emilia, Forlì-Cesena e Rimini come confermano anche le recenti inchieste della Guardia di Finanza. Franciosi fa una stima di oltre 10.000 lavoratori coinvolti sul territorio emiliano-romagnolo; di essi ben 1.500 sono concentrati nella provincia di Modena. «A peggiorare una situazione che denunciamo da anni — prosegue Franciosi — è stata la depenalizzazione del reato di somministrazione irregolare di manodopera attuata dal governo Renzi e che di fatto punisce le imprese con una banale sanzione amministrativa». Fortunatamente, sulla spinta delle tante rivolte di braccianti e lavoratori sfruttati, nel 2016 è stata approvata la legge 199 per il contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento in agricoltura che prevede anche una regolamentazione del livello retribuivo dei lavoratori. Il decreto dignità appena convertito in legge ha ripristinato poi il reato di somministrazione fraudolenta di manodopera, ma ha lasciato depenalizzate le ammende, «sanzionando maggiormente il singolo lavoratore rispetto al committente». In Emilia-Romagna — conclude Franciosi — non si registrano le «paghe da fame» denunciate al Sud, ma «i 4/5 euro del nostro territorio e il rischio di scivolare nel lavoro nero non sono certo da sottovalutare».
A parte qualche piccola sacca di irregolarità, insomma, il pomodoro nostrano dovrebbe essere «salvo». Questi i numeri diffusi dall’organizzazione OI Pomodoro da industria del Nord Italia: l’Emilia-Romagna è la regione con la quota più consistente di superfici coltivate a pomodoro da industria con una quota di 24.140 ettari. Questa la classifica delle province: Piacenza 9.962 ettari, Ferrara 5.703, Parma 4.293, Ravenna 2.019, Reggio Emilia 1.004e Modena 763.