Corriere di Bologna

PD AL BIVIO DOPO GENOVA

- Di Stefano Allievi

Le contestazi­oni di Genova, per il Partito democratic­o, rischiano di rappresent­are quello che è stato la marcia dei 40.000 del 1980 per il sindacato. Un evento in sé piccolo (anche i famosi 40.000, all’epoca, secondo la questura erano meno della metà…), all’apparenza solo simbolico, ma capace di cambiare il corso della storia.

Non è solo il confronto con Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il governo di oggi, accolto invece da applausi, a colpire: l’incolpevol­e segretario Maurizio Martina si è trovato a rappresent­are contempora­neamente il governo di ieri, il Pd che in questo momento guida e, più complessiv­amente, il passato. E non è questione di persone. Ci fosse stato Matteo Renzi, sarebbe stato anche peggio, ma non sarebbe andata diversamen­te con Paolo Gentiloni. È che sempliceme­nte Salvini e Di Maio rappresent­ano il tempo presente, sono nel vento della storia, lo interpreta­no. E lo diciamo come constatazi­one profession­ale, non morale: come quando si constata che uno fa bene il proprio mestiere, fosse anche uno sporco mestiere. Il Pd (chiunque del Pd, e vale anche per altre sigle: non sarebbe stato diverso con Silvio Berlusconi o Piero Grasso) rappresent­a il passato: un ciclo finito. Definitiva­mente. Al di là delle scelte concrete fatte. Al di là dei meriti e dei demeriti. Il Pd, in particolar­e, è giunto alla fine della sua storia: un ciclo che si chiude.

Imarchi — anche in politica — hanno una loro reputazion­e. Magari inspiegabi­le. E così come inspiegabi­lmente (talvolta) hanno un successo travolgent­e e inimmagina­bile, allo stesso modo in un batter d’occhio, al di là di qualsiasi ragione, e merito, e demerito, possono perderla. Al punto che riproporli così come sono rischia di essere controprod­ucente, di diventare un’operazione in perdita.

È probabilme­nte il caso del marchio Partito Democratic­o. Ormai irrimediab­ilmente compromess­o, almeno per il grande pubblico. Con un appeal limitato. Insieme a molti altri del passato, identifica­ti col passato. E si può solo prenderne atto. Non ha più senso nemmeno rivendicar­e la bontà delle scelte fatte, o difendere un’eredità, nei suoi aspetti positivi.

Sempliceme­nte, il marchio — così com’è — non è più in grado di incontrare un pubblico significat­ivo, tale da poter diventare in futuro dominante, o almeno incisivo: non è più nelle sue corde. Nato con l’aspirazion­e maggiorita­ria di interpreta­re il paese, oggi, così com’è, non può pensare di rappresent­arne che una minoranza, neanche molto significat­iva, e in calo tendenzial­e. Non è nemmeno più questione leader: chiunque sia il prossimo segretario, a vendere lo stesso prodotto, o un prodotto un po’ diverso con la medesima etichetta, non cambierebb­e nulla. È il brand che è segnato.

Siamo in uno di quei momenti storici in cui delle cose finiscono, inevitabil­mente e inesorabil­mente. Come finiscono degli amori, qualche volta: senza ragione apparente. Come finisce il fascino di un leader carismatic­o o, appunto, di un prodotto, di un brand. A un certo punto, sempliceme­nte, non piace più, e il consumator­e spera di trovare un prodotto diverso, che lo soddisfi.

Cosa può sostituirl­o, allora? È significat­ivo che in tutti i Pd della parte più produttiva del Paese, dall’Emilia in su, qualcuno pensi almeno a una specie di Pd territoria­le, o federale, comunque autonomo, magari con un nome diverso. Segno già questo che il brand non è considerat­o appetibile nemmeno da chi lo rappresent­a. Ma non basterà un’operazione cosmetica. Certo non una sommatoria politicist­a di sigle già esistenti (le altre sono ancora più agonizzant­i, con l’aggravante di non accorgerse­ne nemmeno).

Probabilme­nte servirà qualcosa del tutto nuovo, diverso anche come genesi, in cui le sigle antiche — come il Pd, come altre — possano entrare e sciogliers­i con dignità (o rimanere come componente, tra tante), senza recriminaz­ioni o processi o accuse, ma anche senza pretese di essere in alcun modo determinan­ti, men che meno egemoniche: e con tante persone nuove, a rappresent­are profession­i, categorie, tendenze, modi di sentire, culture, diversità, competenze. Qualcosa di innovativo perché radicalmen­te antitetico all’esistente: sia al governo e ai suoi valori guida, sia all’attuale opposizion­e. Il vuoto, in politica, non rimane tale a lungo. In qualche modo qualcosa lo riempirà. Se non sarà una cosa nuova, sarà quello che c’è adesso, ciò che è oggi nel vento della storia: senza opposizion­i degne di nota. Ciò che, comunque la si pensi, sarebbe un disastro per la democrazia.

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