PD AL BIVIO DOPO GENOVA
Le contestazioni di Genova, per il Partito democratico, rischiano di rappresentare quello che è stato la marcia dei 40.000 del 1980 per il sindacato. Un evento in sé piccolo (anche i famosi 40.000, all’epoca, secondo la questura erano meno della metà…), all’apparenza solo simbolico, ma capace di cambiare il corso della storia.
Non è solo il confronto con Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il governo di oggi, accolto invece da applausi, a colpire: l’incolpevole segretario Maurizio Martina si è trovato a rappresentare contemporaneamente il governo di ieri, il Pd che in questo momento guida e, più complessivamente, il passato. E non è questione di persone. Ci fosse stato Matteo Renzi, sarebbe stato anche peggio, ma non sarebbe andata diversamente con Paolo Gentiloni. È che semplicemente Salvini e Di Maio rappresentano il tempo presente, sono nel vento della storia, lo interpretano. E lo diciamo come constatazione professionale, non morale: come quando si constata che uno fa bene il proprio mestiere, fosse anche uno sporco mestiere. Il Pd (chiunque del Pd, e vale anche per altre sigle: non sarebbe stato diverso con Silvio Berlusconi o Piero Grasso) rappresenta il passato: un ciclo finito. Definitivamente. Al di là delle scelte concrete fatte. Al di là dei meriti e dei demeriti. Il Pd, in particolare, è giunto alla fine della sua storia: un ciclo che si chiude.
Imarchi — anche in politica — hanno una loro reputazione. Magari inspiegabile. E così come inspiegabilmente (talvolta) hanno un successo travolgente e inimmaginabile, allo stesso modo in un batter d’occhio, al di là di qualsiasi ragione, e merito, e demerito, possono perderla. Al punto che riproporli così come sono rischia di essere controproducente, di diventare un’operazione in perdita.
È probabilmente il caso del marchio Partito Democratico. Ormai irrimediabilmente compromesso, almeno per il grande pubblico. Con un appeal limitato. Insieme a molti altri del passato, identificati col passato. E si può solo prenderne atto. Non ha più senso nemmeno rivendicare la bontà delle scelte fatte, o difendere un’eredità, nei suoi aspetti positivi.
Semplicemente, il marchio — così com’è — non è più in grado di incontrare un pubblico significativo, tale da poter diventare in futuro dominante, o almeno incisivo: non è più nelle sue corde. Nato con l’aspirazione maggioritaria di interpretare il paese, oggi, così com’è, non può pensare di rappresentarne che una minoranza, neanche molto significativa, e in calo tendenziale. Non è nemmeno più questione leader: chiunque sia il prossimo segretario, a vendere lo stesso prodotto, o un prodotto un po’ diverso con la medesima etichetta, non cambierebbe nulla. È il brand che è segnato.
Siamo in uno di quei momenti storici in cui delle cose finiscono, inevitabilmente e inesorabilmente. Come finiscono degli amori, qualche volta: senza ragione apparente. Come finisce il fascino di un leader carismatico o, appunto, di un prodotto, di un brand. A un certo punto, semplicemente, non piace più, e il consumatore spera di trovare un prodotto diverso, che lo soddisfi.
Cosa può sostituirlo, allora? È significativo che in tutti i Pd della parte più produttiva del Paese, dall’Emilia in su, qualcuno pensi almeno a una specie di Pd territoriale, o federale, comunque autonomo, magari con un nome diverso. Segno già questo che il brand non è considerato appetibile nemmeno da chi lo rappresenta. Ma non basterà un’operazione cosmetica. Certo non una sommatoria politicista di sigle già esistenti (le altre sono ancora più agonizzanti, con l’aggravante di non accorgersene nemmeno).
Probabilmente servirà qualcosa del tutto nuovo, diverso anche come genesi, in cui le sigle antiche — come il Pd, come altre — possano entrare e sciogliersi con dignità (o rimanere come componente, tra tante), senza recriminazioni o processi o accuse, ma anche senza pretese di essere in alcun modo determinanti, men che meno egemoniche: e con tante persone nuove, a rappresentare professioni, categorie, tendenze, modi di sentire, culture, diversità, competenze. Qualcosa di innovativo perché radicalmente antitetico all’esistente: sia al governo e ai suoi valori guida, sia all’attuale opposizione. Il vuoto, in politica, non rimane tale a lungo. In qualche modo qualcosa lo riempirà. Se non sarà una cosa nuova, sarà quello che c’è adesso, ciò che è oggi nel vento della storia: senza opposizioni degne di nota. Ciò che, comunque la si pensi, sarebbe un disastro per la democrazia.