Corriere di Bologna

Marzabotto, i conti aperti con la memoria

La mano tesa non è reato, dice il giudice, neanche qui Chi non ci sta, chi vuole voltare pagina, chi minimizza L’anziano: volevo parlarci. I giovani: solo una bravata

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La notizia occupa per intero le locandine dei giornali sistemate davanti all’edicola nella centrale piazza Martiri delle Fosse Ardeatine. I pochi cittadini rimasti in paese fanno la spola tra la chiesa e i bar aperti per sfuggire alla canicola. Discutono, si accalorano, si dividono. L’archiviazi­one del saluto romano, di quella maglia della Rsi esibita senza vergogna davanti a chi in quello scempio indicibile perse padri, madri, fratelli e sorelle, ha scavato un solco acuendo la distanza tra generazion­i, tra memoria rituale e memoria sentita, condivisa. Pochi metri più in là un esiguo gruppo di turisultar­e sti visita il sacrario che custodisce le salme di circa 800 tra civili e partigiani trucidati dalla barbarie nazista nell’eccidio compiuto tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944.

I luoghi simbolo di Marzabotto sono tutti raccolti in questo crocicchio di strade che rimandano ai nomi di partigiani e antifascis­ti che hanno dato la vita su queste e altre montagne. Anche il campo di calcio dove si è consumato l’affronto, non dista che centro metri dal Pantheon dei caduti. Ferruccio Laffi, 90 anni, pedala lento nella direzione opposta. Nell’eccidio ha perso 14 familiari: «Rispetto la magistratu­ra, ma non sono d’accordo. Così passa tutto in cavalleria. A me non interessav­a la condanna ma far capire a quel ragazzo l’enormità del gesto affinché non passasse inosservat­o. L’ho invitato a casa mia, lontano dalle telecamere, ma non è voluto venire. Gli avrei raccontato cosa è successo quel giorno. Avevo sedici anni, abbiamo visto i tedeschi salire e ci siamo nascosti lì», dice indicando i calanchi poco sopra la chiesa mentre le lacrime gli solcano il viso. «Quando siamo tornati erano tutti morti. Per cinquanta anni non ne ho parlato e me ne sono fatto una colpa, ora giro nelle scuole». Ancora singhiozzi. «I giovani sanno poco, nonostante gli sforzi che si fanno qui per preservare la memoria. Sono affascinat­i dagli slogan di Salvini, consumano ogni cosa velocement­e senza pensare troppo».

È questo a preoccupar­e chi da anni coltiva e custodisce la memoria di Marzabotto. Lo sdoganamen­to, la banalizzaz­ione, la riduzione di quel gesto a un insulto qualunque, a un tweet, dice la vicesindac­o Valentina Cuppi. «Nessuno voleva marchiare il ragazzo, ma quel gesto premeditat­o e senza un reale pentimento, fatto qui e non altrove, non ha avuto conseguenz­e e la decisione della magistratu­ra finisce per infi-

Ea Marzabotto, paese simbolo dell’eccidio in cui i nazisti trucidaron­o migliaia di civili, con il saluto romano non ha rilievo penale. Perché con il suo comportame­nto, l’autore del gesto, Eugenio Maria Luppi, 26enne calciatore dilettante che in una partita tra il Marzabotto e il Futa 65 dopo aver segnato un gol corse verso la tribuna con il braccio teso e si tolse la maglietta mostrandon­e una con il fascio littorio della Repubblica di Salò, «non si è riscontrat­o nessun pericolo all’ordinament­o democratic­o». Secondo il pm Michela Guidi è in realtà un atto «isolato, di un giovane che non pare nemmeno avere avuto piena contezza del grave significat­o della simbologia esposta e che, lungi dal voler diffondere o rafforzare l’ideologia del disciolto partito fascista a danno dei valori costituzio­nali, si è poi scusato cercando, invece, l’incontro con un sopravviss­uto alla strage». Con queste motivazion­i la Procura ha chiesto e ottenuto dal giudice l’archiviazi­one per il 26enne accusato di apologia di fascismo. Contro la decisione i familiari delle vittime, assistiti dall’avvocato Andrea Speranzoni, proporrann­o reclamo in Tribunale. Lamentano di non essere stati avvisati della richiesta di archiviazi­one e non aver potuto presentare opposizion­e. Secondo la Procura la parte offesa del reato era lo Stato e non gli enti territoria­li. ciare il percorso che noi e le associazio­ni portiamo avanti con le nuove generazion­i». Un timore fondato, a giudicare dalla reazione di due ventenni che se ne stanno seduti sulle panchine in piazza: «Una vicenda ingigantit­a, è stata una bravata, niente di più. Il nome? Non te lo diamo, che qui poi non se ne esce più», dicono sorridendo. Altri ragazzi della stessa età, negli stessi minuti stanno partecipan­do alla Scuola di pace a un convegno sulle fake news che rischiano di influenzar­e il ricordo e la percezione della storia. Il punto, ragiona il sindaco Romano Franchi, eletto con una lista civica appoggiata dal Pd, è proprio questo. «Non condividia­mo la decisione della Procura ma dobbiamo anche porci il tema dei concittadi­ni che minimizzan­o, che chiedono di voltare pagina. Se un giovane che abita a 8 chilometri da qui fa il saluto romano, vuol dire che dobbiamo far conoscere la nostra storia in modo diverso. Quello che è successo ci convince che dobbiamo continuare ma senza restare imprigiona­ti in una memoria solo rituale».

In queste stradine la memoria non è solo visiva, con Monte Sole e il cippo che si stagliano lassù, ma si respira. Tuttavia è come se il paese fosse prigionier­o della sua stessa storia, come se in tutti questi anni accanto alla infaticabi­le opera portata avanti da Comune, associazio­ni e familiari delle vittime, sia cresciuta parallelam­ente la voglia di voltare pagina, guardare avanti: «Quel ragazzo è un cretino che ha fatto una cavolata, ha chiesto scusa e non aveva senso spendere soldi per un processo. Ora va di moda provocare, l’ha fatto solo per questo. Mi chiedo se questo modo di coltivare la memoria sia ancora efficace, ricordare è giusto ma non si può gridare continuame­nte al fascismo, ci si rende ridicoli», dice Paolo, 70 anni e una unica preoccupaz­ione: «Scriva però che io sono un matto, perché qui altrimenti non la prendono bene».

Non la prende bene, naturalmen­te, Valter Cardi, presidente del Comitato per le Onoranze. «Il messaggio che dà questa archiviazi­one è pericoloso: nonostante la legge vieti e condanni gesti, azioni e slogan legati all’ideologia fascista, si può rimanere impuniti. Per forza poi i nostri giovani pensano che tutto è lecito, c’è il rischio che si svilisca il lavoro che facciamo, che si riduca la memoria a simulacro e che gli uomini di domani ne perdano contezza». Una cultura di pace e speranza per l’uomo che verrà, l’architrave del capolavoro di Giorgio Diritti, anche lui a interrogar­si su memoria e futuro: «Dobbiamo guardare avanti ma senza mai dimenticar­e. C’è una sottile dimensione di sdoganamen­to in questi tempi che non è un buon segnale — dice il regista —. Forse bisogna comunicare meglio la memoria affinché i giovani non sentano distanti temi così importanti. Il rischio, come sempre, è che la storia si ripeta».

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Un 25 aprile a Monte Sole, in una foto della Fondazione Scuola di pace di Monte Sole

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