Corriere di Bologna

IMPRESE E VALORE PUBBLICO

- Di Paolo Gubitta e Maurizio Zordan

Dal tragico giorno del crollo del ponte Morandi a Genova, oltre al lavoro svolto da tecnici e magistrati per individuar­e cause e responsabi­lità del disastro, si è aperto il dibattito tra politici ed esperti sulla gestione delle imprese concession­arie di servizi pubblici. Qual è la funzione di queste imprese? Come devono essere gestite? Devono fare profitti o dare servizi pubblici a costi competitiv­i a prescinder­e dal risultato economico? E chi è più garante dell’equilibrio? Il gestore pubblico o quello privato? Per alcuni, le risposte portano senza indugio alla (ri) nazionaliz­zazione, così da rimettere la gestione delle attività di pubblico interesse nel perimetro delle imprese controllat­e dallo Stato. È come dire che le concession­i hanno espropriat­o il soggetto pubblico dei suoi poteri e adesso lo Stato se li riprende.

Per altri, invece, la nazionaliz­zazione è una sciagura e indicano come soluzione l’intensific­azione dei controlli delle imprese concession­arie in mano ai privati. È come dire che lo Stato ha abdicato al controllo e auspicare a una sorta di ravvedimen­to operoso per rimettere le cose in ordine.

Queste due visioni sono opposte nel risultato, ma tra loro intimament­e collegate dal medesimo cordone ombelicale: la sfiducia (senza appello) nella capacità del capitalism­o privato di farsi carico di interessi e bisogni oltre i confini della proprietà, di riformarsi, di correggers­i e di evolvere.

Le cose non stanno così. L’impresa privata ha la capacità di convertire una parte dei profitti privati in pubbliche utilità e oggi ha gli strumenti giuridici e gestionali per farlo. Gli Stati Uniti sono stati i primi a prevedere la forma giuridica Benefit Corporatio­n, un modello intermedio tra impresa forprofit e no-profit. L’Italia è l’unico altro Paese ad averli seguiti e dal 2016, le nostre imprese possono assumere la forma di Società Benefit (ad oggi sono circa 200).

Chi lo fa, dichiara nello statuto che l’impresa integra lo scopo della divisione degli utili per i soci (lucky few) con l’impegno a perseguire benefici comuni per una più ampia platea di stakeholde­r (happy many). In più, può farsi certificar­e l’impatto generato. La trasformaz­ione delle concession­arie di pubblici servizi in Società Benefit è una via d’uscita allo scontro ideologico in atto tra nazionaliz­zazione e privatizza­zione. Immaginate se alcune concession­arie diventasse­ro Società Benefit, impegnando­si a rendiconta­re pubblicame­nte il beneficio realizzato. Immaginate i processi di imitazione attivabili nel proprio settore (come ha fatto l’americana Patagonia nell’abbigliame­nto sportivo) o lungo la filiera (come ha fatto l’italiana Olio Carli con la Filiera della Bontà). In questo quadro, merita un cenno la funzione della proprietà familiare delle imprese, implicitam­ente attaccata per effetto della quota detenuta dai Benetton in Autostrade per l’Italia (concession­aria del tratto autostrada­le in cui è avvenuto il disastro di Genova). Per definizion­e, le famiglie imprendito­riali hanno obiettivi di lungo periodo che vanno oltre il profitto e che si estendono a fattori non economici (valori, cultura, reputazion­e, continuità), spingendol­e ad avviare iniziative a beneficio di comunità, territori e ambiente. Non dimentichi­amolo.

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