IMPRESE E VALORE PUBBLICO
Dal tragico giorno del crollo del ponte Morandi a Genova, oltre al lavoro svolto da tecnici e magistrati per individuare cause e responsabilità del disastro, si è aperto il dibattito tra politici ed esperti sulla gestione delle imprese concessionarie di servizi pubblici. Qual è la funzione di queste imprese? Come devono essere gestite? Devono fare profitti o dare servizi pubblici a costi competitivi a prescindere dal risultato economico? E chi è più garante dell’equilibrio? Il gestore pubblico o quello privato? Per alcuni, le risposte portano senza indugio alla (ri) nazionalizzazione, così da rimettere la gestione delle attività di pubblico interesse nel perimetro delle imprese controllate dallo Stato. È come dire che le concessioni hanno espropriato il soggetto pubblico dei suoi poteri e adesso lo Stato se li riprende.
Per altri, invece, la nazionalizzazione è una sciagura e indicano come soluzione l’intensificazione dei controlli delle imprese concessionarie in mano ai privati. È come dire che lo Stato ha abdicato al controllo e auspicare a una sorta di ravvedimento operoso per rimettere le cose in ordine.
Queste due visioni sono opposte nel risultato, ma tra loro intimamente collegate dal medesimo cordone ombelicale: la sfiducia (senza appello) nella capacità del capitalismo privato di farsi carico di interessi e bisogni oltre i confini della proprietà, di riformarsi, di correggersi e di evolvere.
Le cose non stanno così. L’impresa privata ha la capacità di convertire una parte dei profitti privati in pubbliche utilità e oggi ha gli strumenti giuridici e gestionali per farlo. Gli Stati Uniti sono stati i primi a prevedere la forma giuridica Benefit Corporation, un modello intermedio tra impresa forprofit e no-profit. L’Italia è l’unico altro Paese ad averli seguiti e dal 2016, le nostre imprese possono assumere la forma di Società Benefit (ad oggi sono circa 200).
Chi lo fa, dichiara nello statuto che l’impresa integra lo scopo della divisione degli utili per i soci (lucky few) con l’impegno a perseguire benefici comuni per una più ampia platea di stakeholder (happy many). In più, può farsi certificare l’impatto generato. La trasformazione delle concessionarie di pubblici servizi in Società Benefit è una via d’uscita allo scontro ideologico in atto tra nazionalizzazione e privatizzazione. Immaginate se alcune concessionarie diventassero Società Benefit, impegnandosi a rendicontare pubblicamente il beneficio realizzato. Immaginate i processi di imitazione attivabili nel proprio settore (come ha fatto l’americana Patagonia nell’abbigliamento sportivo) o lungo la filiera (come ha fatto l’italiana Olio Carli con la Filiera della Bontà). In questo quadro, merita un cenno la funzione della proprietà familiare delle imprese, implicitamente attaccata per effetto della quota detenuta dai Benetton in Autostrade per l’Italia (concessionaria del tratto autostradale in cui è avvenuto il disastro di Genova). Per definizione, le famiglie imprenditoriali hanno obiettivi di lungo periodo che vanno oltre il profitto e che si estendono a fattori non economici (valori, cultura, reputazione, continuità), spingendole ad avviare iniziative a beneficio di comunità, territori e ambiente. Non dimentichiamolo.