Tony Taylor: «Mi sento a casa, voglio vincere»
Il play si racconta: «Ringrazio per quello che ho ogni volta che mi sveglio»
Tony Taylor, si è conclusa la settimana di ritiro a Sestola. Un bilancio?
«Sicuramente molto positivo. Ci stiamo integrando alla grande, ma quando trovi dei ragazzi come quelli che compongono il gruppo è facile. Ho buone sensazioni».
Che annata dobbiamo aspettarci?
«Per molti di noi è un anno chiave. Conosciamo i campionati europei, non siamo giovanissimi, abbiamo una buona esperienza. Vogliamo vincere più partite possibile».
Si descriva come giocatore per chi non la conosce.
«Sono un “floor general”, un regista. Cercherò di portare in campo la mia leadership e l’abilità di tenere unita la squadra».
La leggenda dipinge i playmaker nati sui playground della Grande Mela come molto estrosi, veloci, non grandi tiratori. Si riconosce?
«No, penso di essere piuttosto lontano dallo stereotipo del play newyorkese e non gioco in un playground dall’ultimo anno di liceo. Io ho un buon tiro e non mi piace palleggiare molto, sono più portato a coinvolgere i miei compagni e per me sono importanti entrambi i lati del campo, attacco e difesa».
Fuori dal campo che tipo è?
«Sono molto legato alla mia famiglia e da questo punto di vista la cultura italiana mi fa quasi sentire come a casa perché so che anche qui è un valore importante. Sono uno che ha lavorato duro per tutto quello che ho ottenuto e otterrò in futuro. Nulla mi è mai stato regalato, sono sempre stato un “underdog”, quello che non ce l’avrebbe mai fatta, fin da bambino. Sono grato per quello che ho ogni volta che mi sveglio». Cosa si aspetta dall’Italia? «Ha grande tradizione e storia, voglio vivere in pieno questa mia esperienza. Voglio visitare più posti possibili: Roma, Firenze, Venezia, Milano, il lago di Como».
Stranamente non ci ha parlato del cibo.
«Non l’ho dimenticato (ride...). La prima cosa che mi hanno detto quando ho firmato è che a Bologna si mangia benissimo e i tifosi sono straordinari».
Chi è il suo modello?
«Nella vita, la mia famiglia. Mio padre e mia madre ci sono sempre stati, mi hanno spinto ad arrivare dove sono ora. Parliamo tutti i giorni anche quando sono lontano».
E nel basket?
«Allen Iverson, senza dubbio. Lui è forse l’underdog degli underdog. Ha sempre giocato con un peso sulle spalle e ha vinto».
Ha lo stesso palleggio incrociato spezza caviglie di Iverson?
«Forse una volta, ma adesso il mio modo di giocare è cambiato. Ero abituato a tirare molto, ma questo non ti fa vincere le partite. Perciò ho adattato il mio gioco, dando più importanza alla difesa, al coinvolgimento dei compagni e a essere un leader positivo in campo».
Nella sua carriera ci sono anche due anni all’Enisey di Krasnoyarsk, in Siberia. Come ha resistito al freddo?
«Sono newyorkese e ci sono abbastanza abituato, al freddo. È stata una bella esperienza, la cosa più dura erano le 12 ore di fusorario con New York e le 4-5 ore di viaggio per ogni partita in trasferta».
” Nulla mi è mai stato regalato, sono sempre stato un underdog, quello che non ce l’avrebbe mai fatta: ho lavorato duro per ottenere tutto questo