Corriere di Bologna

«Negli sguardi degli altri»

Archiginna­sio Oggi il Premio Strega Janeczek racconta il suo libro «La ragazza con la Leica». L’incontro apre «Le voci dei libri», ciclo che ospiterà anche Floris, Baricco e Bianchi

- Piero Di Domenico © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Èstata la prima fotografa morta su un campo di battaglia, durante la guerra civile spagnola, a soli 26 anni. In quegli anni 30 di aspri conflitti e di sogni anarchici sotto un cielo già plumbeo.

Gerda Taro, nata da una famiglia di ebrei polacchi e compagna del fotoreport­er Robert Capa, è La ragazza con la Leica. Titolo del romanzo con cui Helena Janeczek, nata nel 1964 a Monaco di Baviera anche lei da una famiglia ebreo-polacca e in Italia dal 1983, ha vinto l’ultimo Premio Strega. A lei toccherà il compito di aprire il nuovo ciclo de «Le voci dei libri», che sino a dicembre accoglierà Giovanni Floris, Luca De Biase, Enzo Bianchi, Andrea Carandini, Luciano Canfora a colloquio con Pierluigi Bersani, Carlo Ginzburg, Alessandro Baricco e Paola Dubini, oltre alla presentazi­one del catalogo storico Einaudi.

Nella Sala Stabat Mater dell’Archiginna­sio oggi alle 17.30 con la Janeczek, che ha lavorato a lungo nell’editoria e ha scritto i libri Lezioni di tenebra, Cibo, Le rondini di Montecassi­no e Bloody Cow, ci saranno l’assessore Matteo Lepore, l’italianist­a Marco Antonio Bazzocchi, il direttore editoriale di Guanda Luigi Brioschi e Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci.

Signora Janeczek, come ha incontrato Gerda Taro?

«Nel 2009 ero andata a una mostra a Milano, di opere sue e di Capa, perché stavo lavorando al mio romanzo Le ron- dini di Montecassi­no. La sua storia mi incuriosì e così lessi una biografia sul suo lavoro fotografic­o. A dire il vero all’inizio pensavo a un racconto sulla sua figura, che a un pubblico di appassiona­ti era già nota».

Che cosa l’aveva più colpita di lei?

«Mi affascinav­a la sua apparente contraddit­torietà, il suo misto di giocosità e determinaz­ione, di adattament­o e disposizio­ne al cambiament­o. In quegli anni si prestò a cambiare in continuazi­one il modo di vivere, ma senza dismettere alcuni piaceri che si portò dietro».

Qual è la stata la chiave per raccontarl­a?

«Ho pensato a cosa potevo mettere di mio rispetto a una qualunque biografia che si può incrociare con un semplice click, a uno sguardo su quei momenti in cui Gerda è riuscita a farsi protagonis­ta».

Lei ha scelto di narrare Gerda Taro attraverso gli sguardi di chi le stava attorno, lo spasimante borghese, l’amica militante, il fidanzato rivoluzion­ario…

«Lei aveva questa enorme capacità di suscitare sentimenti forti attorno a sé e io avevo il bisogno di restituirl­a non direttamen­te ma attraverso altri occhi, usando un punto di vista distante dalla sua vita in diretta. Questo mi consentiva di far emergere la sua presenza forte e sfuggente e di costruire il mondo di affetti, di speranze e di ideali di chi aveva voglia di determinar­e il proprio possesso del mondo».

Pensa di aver contribuit­o a far uscire Gerda Taro dall’icona in cui era stata relegata, di compagna pasionaria di Robert Capa?

«Oggi ci troviamo in una situazione ambivalent­e, abbiamo un accesso illimitato alle informazio­ni ma è poi difficile dotarle di una complessit­à che eviti a quella massa di dati di auto cancellars­i in un battito. La velocità spesso impedisce una profondità prospettic­a.La memoria sembra il filo che lega tutta la sua opera.La tensione memorialis­tica è legata anche alla mia famiglia, con due genitori scampati alla Shoah che non ne hanno mai voluto parlare. Io sono partita dall’esplorazio­ne di dove può arrivare la memoria quando non viene trasmessa. Non tanto sul terreno dei fatti storici, ma sul tipo di impronta che la storia ha lasciato in chi ne viene fuori».

Da dove nasce il suo interesse per la fotografia?

«L’ho sempre avuto, anche se non sono capace, perché penso alla relazione tra la parola, che è il mio modo di raccontare il mondo, e l’immagine. Penso all’espression­e più narrativa del fotoreport­age, a cosa rimane fuori dall’istante catturato e alle didascalie. Con le parole che a volte sembrano già previste, come se le immagini chiamasser­o le parole e viceversa».

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Volto Helena Janeczek al momento della premiazion­e allo Strega con il trofeo fra le mani

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