UNA GARA TRA REGIONI DA EVITARE
Le rivendicazioni autonomistiche non sono certo una trovata propagandistica dell’ultima ora. Il Trentino e l’Alto Adige/ Südtirol, che hanno un ordinamento speciale da settant’anni, hanno sempre lavorato per aumentare le proprie competenze e continuano a farlo; Veneto e Lombardia (anche evidenziando peculiarità identitarie) almeno dagli anni Novanta del secolo scorso si battono affinché la loro forza economica non sia rallentata dalle inefficienze statali; più recente è la spinta proveniente dall’ Emilia Romagna, mail percorso che l’altro ieri ha ottenuto il via libera dal consiglio regionale è stato studiato con attenzione, scegliendo con cura le materie per le quali si richiede una potestà locale. Sia il governo Gentiloni, sia quello attuale a trazione Lega-M5S, hanno ampiamente accettato la logica della sussidiarietà, tuttavia tra il dire e il fare ci sono di mezzo le risorse. Il Carroccio sul tema si gioca buona parte della propria credibilità, trattandosi di una sua battaglia storica. Non a caso ha voluto essere al timone del ministero per gli affari regionali e le autonomie, affidandolo a una voce del Veneto qual è Erika Stefani: ogni successo sarà intestato al partito di Salvini, ma lo stesso dicasi per eventuali fallimenti. Ecco perché le recenti tensioni tra la ministra e il suo sottosegretario pentastellato, il lombardo Stefano Buffagni che ha definito «irragionevoli» le istanze del Veneto, rischiano di essere assai pericolose per l’esecutivo Conte.
Come uscirne? Continuando a lavorare ventre a terra sui tavoli trilaterali con i vari ministeri e gli enti locali, evitando dichiarazioni avventate. Lunedì, a Bolzano, Romano Prodi è stato a lungo applaudito da una sala dove c’erano numerosi esponenti della Südtiroler Volkspartei, fatto non comune per un politico di lingua italiana. L’ex senatore Oskar Peterlini ha ricordato quando l’allora Landeshauptmann Durnwalder, presentando una lista infinita di richieste, venne fermato da Prodi: «Faccio quello che posso», gli disse. E Prodi ha spiegato che non risultò tutto idilliaco, ma ci furono momenti di guerra, poiché si trattò di un confronto per nulla elitario, bensì autenticamente popolare: «Si discuteva sui metri perché significava includere o escludere un paese». Insomma, la battaglia si giocò sui contenuti, non sugli slogan e sulle dichiarazioni a effetto (oggi si direbbe con i tweet). «La responsabilità e la tenuta della coerenza sono questioni serie», ha concluso il Professore. Nel suo intervento, si è tenuto lontano dall’attualità, tranne quando ha auspicato un ritorno della politica a un metodo in cui prima si approfondisce, quindi si discute a lungo e, infine, si decide. Poi, passeggiando nel centro di Bolzano con un amico che gli chiedeva come giudicasse il dibattito attuale sull’autonomia, si è limitato a dire che gli sembra troppo rivolto all’esterno, mentre invece occorrerebbe impegnarsi come allora a districare singolarmente ogni nodo, accettando la logica del compromesso «che non è una parola sporca, ma la strada in cui entrambe le parti cedono qualcosa per ottenere un obiettivo comune». La prudenza dei commenti di Stefano Bonaccini dopo il voto dell’Aula sono in linea con una simile impostazione: il governatore ha detto infatti che non intende polemizzare con il ministro, che arrivare al risultato un mese dopo Lombardia o Veneto non sarebbe una catastrofe e che sul nodo delle finanze da rivendicare non vuole fare anticipazioni. La partita, in conclusione, appare ben indirizzata, essendo indispensabili una paziente cura dei dettagli e la disponibilità all’ascolto reciproco: le battute in libertà o le corse alla primogenitura possono essere solo di intralcio. Consentire alle Regioni trainanti del Paese di correre senza inutili freni è un interesse nazionale, non locale. Ciò non significa abbandonare i carri meno veloci al proprio destino, quanto sfruttare al meglio ogni risorsa.