I portici di Bologna corridoi umanitari
Si tratta invece in questo caso, per quanto possa sembrare strano perché controintuitivo, di una ripresa e un’estensione di una originaria e costitutiva funzione. I bolognesi ricordano ancora l’elogio dei portici svolto dall’arcivescovo all’atto del suo insediamento e ancora prima di giungere sotto le torri, appena arrivato al meridionale confine appenninico della diocesi. Un elogio che riconosceva nella tipica forma bolognese di spazio pubblico la struttura più propizia alla produzione di quello spirito di comunità senza il quale una città non è tale, e che pertanto caratterizzava Bologna in maniera esemplare. Quasi che il «prete di strada» (così il pastore venne presentato al suo gregge) riconoscesse nella via porticata, fascia di transizione e rispetto tra l’ambito domestico e l’esterno, una strada ancora più adatta all’esercizio dei rapporti civili se non dell’apostolato, idonea ancor più di altre allo scambio dialogico tra uguali. Ha spiegato Hannah Arendt che, anche se la distanza era di pochi passi, ogni volta che l’antico cittadino greco si recava dalla propria abitazione in piazza doveva di fatto superare un abisso, appunto quello spalancato tra il dominio privato e quello comune. Proprio su tale abisso i portici bolognesi ( pubblici quanto ad uso ma privati quanto a costruzione se non manutenzione) funzionano fin dall’inizio, e programmaticamente, come ponti, come vettori di comunicazione paritaria, come «corridoi umanitari» verrebbe da dire riprendendo uno degli argomenti di cui in questi giorni si discuterà: strutture a disposizione di ogni essere umano (ogni cittadino) semplicemente in quanto tale, indipendentemente da ogni ulteriore distinzione. Al punto che a Bologna, diversamente da quel che accade in tutte le altre città, le corone nobiliari ornano l’androne dei palazzi che danno sul portico, non sono mai esterne ma sempre interne.
Trasformando i portici in ponti l’arcivescovo Zuppi riscopre dunque il loro compito fondativo, il loro scopo primo. Sicché un’altra specie di abisso s‘aggiunge al primo, non tra quel che è privato e quel che è pubblico perciò politico, ma tra quel che è politico, nel senso che appartiene alla concezione politica e alla pratica quotidiana della città, e quel che invece è la loro versione religiosa. Da un lato i portici come semplici contenitori per la loro patrimonializzazione in senso gastronomico, secondo la più spinta logica di marketing urbano. Dall’altro il richiamo alla loro funzione autentica, al loro ruolo archetipico. E che quest’ultimo, richiamato dal pastore, coincida invece con il richiamo alla funzione politica più alta, dovrebbe essere avvertito come il principale argomento di riflessione da chi amministra la nostra città, soprattutto da chi si accorge adesso di aver perso il contatto con la gente. Anche in questo caso, e per parafrasare un celebre motto, l’origine dovrebbe essere la meta.