Tu vo’ fa’ l’italiano: ma funziona? Saputo & C., perché non vincono
Il nostro calcio e i proprietari nordamericani: buoni capitali, poche vittorie
L’aplomb, la composta riservatezza, l’eleganza degli abiti e dei tagli di tessuto da Lower Manhattan, e — in molti casi — l’assenza fisica. L’eredità nordamericana che il calcio europeo sta tramandando nel secondo decennio del secolo si discosta in modo vigoroso dai sogni pitturati quando i primi imprenditori d’oltreoceano si sono affacciati allo sport più amato nel Vecchio continente. Il proprietario nordamericano ha oramai un cliché dal quale fatica a staccarsi: politicamente corretto, finanziariamente solido ma non munifico, impeccabilmente vestito, perdente. Lo scorso anno, un bel lavoro di Rory Smith sul New York Times ha dipinto i fallimenti americani nel calcio europeo con un racconto dal titolo «Ama il tuo club, detesta il padrone americano». C’è attorno un fenomeno sociale e culturale molto più grande di quanto si possa sospettare, fatto di abitudini e approcci mentali lontani dall’essere scardinati. La stessa «presenza fisica» sul posto, assai latente, e l’attività in prima persona, quasi nulla, sono componenti di una cesura finora decisiva nel bloccare qualsiasi possibilità di successo. Qualcuno si è accorto che il modello vincente che aveva acquistato — parliamo della famiglia Glazer a Manchester — peraltro indebitando il club, era tale finché al comando c’era il baronetto Alex Ferguson. Dal suo ritiro, nel 2013, lo United ha intrapreso il cammino più perdente nella sua storia moderna. Altri hanno fallito al punto di dover cedere il club. La collezione di sconfitte dell’Arsenal — da quest’anno uscito dalla gestione di Wenger — non ha bisogno di presentazioni. Togliendo gli anni di Ferguson allo United, i titoli in campionato delle proprietà americane sono stati zero. E le retrocessioni addirittura cinque.
Ai nordamericani in Italia è andata bene, finora, solo a Joe Tacopina: i suoi modi energici e a volte pittoreschi svegliarono il Bologna in serie B e finora hanno funzionato anche a Venezia, dov’è approdato dopo l’addio ai rossoblù. In Italia, Tacopina ha portato la famiglia Di Benedetto e James Pallotta alla Roma, Joey Saputo a Bologna. Anche per loro poche gioie: la gestione si ravviva con la cessione dei giocatori migliori, come un qualsiasi proprietario italiano di medio livello.
Dov’è il sogno americano, quindi? Qual è il problema che impedisce a queste famiglie — nonostante la buona disponibilità di capitali e in alcuni casi le generose spese — di portare al traguardo progetti sportivi adeguati alle ambizioni delle rispettive città, al blasone dei club e al valore delle uscite di denaro? «I proprietari americani sono insicuri — raccontava nel 2017 al Nyt l’avvocato Steve Gans, consigliere di molti imprenditori entrati nel calcio europeo — sanno di non sapere e si affidano a dirigenti esterni più esperti che non sono però le persone giuste. Non decidono, non hanno lo stesso grado di ricezione che hanno in patria: il problema maggiore è trovare il dirigente giusto di cui fidarsi».
In un anno, poco è cambiato. Hendrik Almstadt, direttore sportivo all’Aston Villa e all’Arsenal, era stato diretto: «Suppongono che un approccio analitico farà di loro l’eccezione in un mondo caotico. Pensano di poter plasmare la realtà senza conoscere il territori. In America ogni settore è qualificato e professionale, non capiscono che in Europa non sempre è così». Si possono trovare anche qui dirigenti appena usciti dalla sartoria, capaci di creare empatia con gli imprenditori americani, ma inadeguati a realizzare i progetti sportivi. Ammesso che i progetti sportivi — intesi per ottenere risultati — siano effettivamente in cima agli obiettivi dei nuovi padroni, finora incapaci di costruire cicli vincenti. L’idea di «crescere gradualmente» in Europa deve passare dalla cruna dell’ago di tradizioni culturali e soprattutto normative differenti. In molti casi la crescita non c’è, e la proprietà — incapace di comunicare — viene percepita come disinteressata. Inoltre il sistema non contribuisce alla crescita di tutti, per generare show e introiti, ma all’aumento del potere e della ricchezza di pochi. E qui, il presidente nordamericano naviga al buio.
Sono insicuri, non trovano le persone giuste a cui affidarsi e credono che il loro approccio analitico funzioni anche fuori ”