«Perdere è ok purché si possa salvare il brand»
Ogni weekend racconta la serie A e il calcio europeo agli americani: Gabriele Marcotti, Senior Writer di ESPN, è un giornalista che conosce molto bene l’intreccio tra le proprietà nordamericane e i club calcistici del Vecchio Continente. In particolari quelli della Premier League inglese, da cui parte la sua analisi: «Un filo conduttore comune a diverse proprietà, di certo quelle di United, Arsenal e Roma, è essere entrate avendo un po’ di soggezione ed evitando di cambiare tutto subito, non portando fin dal primo minuto la mentalità americana». Ovvero maggiormente orientata allo show, al business più che al risultato sportivo in quanto tale. Ogni situazione fa storia a sé ma l’esempio del Manchester United dei Glazer può essere utile per capire l’approccio: «Si sono trovati in mano un club che era una macchina da soldi e da vittorie. Ora, dopo l’addio di Ferguson e del manager Gill nel 2013, gli è rimasta solo la seconda perché se sei allo United anche l’Europa League è considerato un successo minore. Ma finché il club produce introiti, alla proprietà americana va bene anche se i risultati sportivi non solo eccellenti: diventa un problema solo se gli insuccessi danneggiano il brand». Una novità portata nel calcio inglese dalle proprietà nordamericane è nella figura dell’allenatore-manager, che ha meno voce in capitolo sul mercato di quanto avesse tradizionalmente avuto nei decenni scorsi: «Al Liverpool con Rodgers hanno iniziato a ritenere illogico che un allenatore se ne occupasse. Lo stesso che poi ha fatto l’Arsenal una volta partito un accentratore come Wenger: con lui hanno accettato la situazione, ora hanno preso Raul Sanllehi dal Barcellona». Chi pare aver trovato la quadra, ora, è il Liverpool con Klopp. I meriti di Werner e della Fenway Sports però vanno oltre alla scelta del tecnico tedesco: «Sono stati molto rispettosi della storia del club e hanno trovato un allenatore ipercarismatico, ma c’è anche strategia: sono bravi nel fare scouting su giocatori low-cost poi spendono cifre anche eccessive per quei 3-4 giocatori che ritengono fondamentali come Van Dijk e Salah. Se sei bravo, fai meglio e spendi meno di chi fa la squadra con 11 giocatori medio-forti. Poi la dirigenza: il ceo è Moore, ex ad di Ea Sports, che è stato in America 30 anni ma è di Liverpool e conosce il territorio. E i dirigenti principali che si occupano della parte sportiva, Gordon e Hogan, si sono formati proprio alla Fenway Sports». Dalle big alle realtà inglesi meno celebri: «Allo Swansea la proprietà americana è retrocessa — racconta Marcotti — Sunderland e Fulham sono casi particolari contraddistinti da decisioni molto emotive e da errori notevoli nella parte sportiva nonostante gli investimenti». Non è più nordamericano l’Aston Villa, ma lo è stato fino a poco tempo fa. Toccò a Randy Lerner e non è finita bene: «I soldi li ha ereditati, è proprietario dei Cleveland Browns in Nfl e aveva una visione dello sport come veicolo di bene sociale. Ha speso cifre folli per la squadra, si è piazzato bene per due o tre anni ma alla fine è stato un ingenuo che qualcuno ha sfruttato e ha perso molti soldi cedendo il club all’attuale patron cinese, Xia». Dalla Premier alla serie A, con la Roma e con il Bologna. Obiettivi e realtà diverse: «A volte Pallotta si comporta da uomo del popolo, come nella notte del trionfo sul Barcellona, ma l’approccio è da businessman più distaccato, che vende molto per fare grandi plusvalenze. Del Bologna e di Saputo invece negli States si parla poco: anche lui, come Lerner, è un ricco di seconda generazione ma è chiaro che i risultati non stanno aiutando ad avere visibilità e non c’è grande interesse in quello che fa. Sicuramente entrambi parlano poco, fa parte della mentalità americana ma anche di quella inglese: qui non si capisce perché i proprietari dei club italiani parlino di continuo, praticamente dopo ogni partita».