L’ETICA DELLA CITTÀ PETRONIANA
All’interno di un mondo in cui tutto cambia, mossa dopo mossa Bologna tenta di restare fedele a se stessa. Alcuni recenti avvenimenti (o meglio: annunci di imminenti processi) lo dimostrano, come una serie di spinte e controspinte che richiamano lo sforzo di chi tenti di restare a galla. Mentre invece bisognerebbe nuotare di buona lena verso l’approdo, nel guado tra la città petroniana e quella globale in cui ci si trova.
Dalla versione della prima cui siamo abituati ci si allontana ogni giorno di più. Non si sottovaluti, al riguardo, appunto la proclamata decisione dell’imminente chiusura con tornelli dell’ingresso alla stazione ferroviaria. Una misura il cui significato va molto al di là di una semplice disposizione di ordine pubblico, per quanto necessaria. In tal modo, e per la prima volta nella storia urbana bolognese, si opera una distinzione tra la figura dell’abitante e di chi viaggia in treno, separandone natura, funzioni e comportamenti, e differenziandone competenze se non diritti. Già in altre città, negli ultimi tempi, ciò è avvenuto o inizia ad avvenire: Roma, Milano, Napoli. Ma in nessuna di esse la via ferrata ha svolto un ruolo così importante e decisivo, costitutivo anzi, come nella nostra città. Fu proprio attraverso il controllo del traffico su rotaia che Bologna, sede strategica di redistribuzione del traffico nazionale di persone e merci, riuscì ad ordinare per la prima volta tutti i centri del corridoio emiliano da Rimini a Piacenza sotto il suo controllo.
Egrazie ai criteri della regionalità amministrativa adottata dal neonato stato italiano nella dislocazione dei servizi di grado più elevato, proprio sull’attività di direzione ferroviaria fecero massa dalla fine dell’Ottocento altre funzioni d’ambito regionale e anche interregionale: da quelle connesse alla gestione della giustizia e dell’attività scolastica a quelle relative all’organizzazione militare e finanziaria e dei lavori pubblici. Nemmeno l’enorme scompiglio nella rete insediativa e nella maglia delle infrastrutture di relazione provocato nella regione dall’ultimo conflitto riuscì a modificare in maniera apprezzabile gli effetti cumulativi della causalità circolare in tal modo instauratasi. Al punto che la successiva ricostruzione si limitò a rimontare le cose come erano e dove erano. Insomma: tra la via ferrata e la produzione di cittadinanza vi è fin qui stata, a Bologna, strutturale corrispondenza e assoluta continuità. La stessa che ancora oggi, sul piano topografico e della pratica urbana, si esprime nella forma della chiusura al traffico, durante il fine settimana, della strada che dalla stazione conduce in piazza, proprio a segno della tradizionale coerenza tra questa e quella, dell’identificazione tra la figura del cittadino e quella del viaggiatore ferroviario. Che oggi però assume anche la figura della massa turistica, la quale (stando così le cose) soltanto giunta di fronte a San Petronio riesce a appunto a trovare l’ufficio informazioni che in tutte le altre città europee è invece subito accanto ai binari.
Basterebbe quest’ultima evidente disfunzione a segnalare la fine della città petroniana nella sua versione di città ferroviaria, specifica ed originale - sebbene residuale - forma bolognese del compromesso postbellico tra la città fordista e quella keynesiana. Così reimmaginare, cioè rifunzionalizzare, la nostra città diventa sempre più urgente. E proprio in questa direzione va intesa l’importanza di quel che avviene ai Prati di Caprara, dove la mobilitazione, la partecipazione e l’intelligenza sociale ( cioè la sostanza storica della cittadinanza bolognese) sono state in grado di difendere e promuovere il riconoscimento di un’inedita configurazione urbana, almeno per Bologna, mutandosi alla fine in intelligenza politica. Come dire che l’unica maniera che Bologna ha di restare se stessa consiste nell’avere il coraggio di conservare, nel mutare delle forme e delle funzioni, la propria etica. Ne va non del suo destino ideale, ma del suo concretissimo approdo materiale.