Venticinque anni senza Federico Fellini
L’eredità del genio e gli amarcord della sua terra, dai portici al cinema Fulgor
Quasi due sinonimi, il paese natale del più grande regista di tutti i tempi col nome di quello stesso genio di cui siamo oggi orfani inconsolabili da 25 anni.
Federico Fellini e Rimini: il regista, santo del cinema e profeta di un’Italia che andava sfaldandosi sotto gli occhi della sua cinepresa, conservò per sempre la dimensione della memoria.
Quasi due sinonimi, il paese natale del più grande regista di tutti i tempi (opinione ragionata e non modificabile, anzi col tempo mette radici sempre più profonde) col nome di quello stesso genio di cui siamo oggi orfani inconsolabili da 25 anni.
Se ne andò presto dal borgo natìo il grande Federico, santo del cinema e profeta di un’Italia che andava sfaldandosi sotto gli occhi della sua cinepresa: cos’è «La dolce vita» se non la coscienza critica di una ricca, barocca decadenza? Ma conservò per sempre la dimensione della memoria come sanno i suoi estimatori che possono, all’occasione, citare a gradimento sia «I vitelloni» sia «Amarcord», certamente il più grande successo della sua carriera: non in termini economici («La dolce vita» sta al quarto posto degli incassi italiani di tutti i tempi con 15 milioni di biglietti venduti, una cifra oggi fantascientifica) ma in termini di gradimento del pubblico. È stato il suo film più amato e capito perché ci riportava alla stagione degli inizi, alla felicità dei pantaloncini corti e non c’è uno spettatore di quel film che non abbia la sua preferenza sui così detti episodi (che non sono episodi ma non importa) di cui è composto l’affresco che ha anche un senso politico preciso: a molti piace lo zio matto, ad altri l’harem, molti hanno gli occhi lucidi pensando al passaggio del Rex, alcuni si perdono ripensando al nonno che si perde nella nebbia ed altri ancora ridono rammentando la tavola imbandita in famiglia e la mamma che vuol uccidere tutti mettendo la stricnina, sì la stricnina nella minestra.
Ma i ricordi di Fellini non sono né la memoria involontaria di Proust – un qualunque oggetto ti riporta in mente un pensiero, un’epoca, un volto, un amore – né la poetica rivisitazione di un momento personale; sono quell’epoca e quella memoria arricchita però dell’esperienza di poi, il Fellini adulto che si guarda adolescente allo specchio, già pieno di premi e di Oscar, di cui fece incetta fino all’ultimo, alla carriera, collezionandone più di ogni altro suo collega.
Il regista riminese che ogni tanto faceva visita ai suoi piombando in casa in ore inverosimili, magari dopo molti rimandi, ci ha raccontato bene la malinconia della sua provincia d’autunno e il bisogno di emigrare, ma era coevo di tutti anche del Satyricon e di Ginger e Fred: come tutti sanno è lui il Moraldo-Interlenghi che alla fine dei «Vitelloni» parte in treno per Roma mentre un audace piano contrapposto in montaggio parallelo, una novità assoluta per quei tempi, ci mostra gli amici a letto, scavalcando leggi spazio temporali. Ed è proprio «Moraldo in città» il titolo primitivo della Dolce vita, dove il nome del protagonista si è poi accasato per sempre nel dolce viso di Marcello, Mastroianni.
Ma Fellini non amarcordava solo i portici e il cinema Fulgor di Rimini, amarcordava anche Venezia nel suo magnifico «Casanova» anche perché era un regista che non riprendeva la realtà ma la ricreava in studio, scoprendone una dimensione più vera del vera, facendo coincidere la sua ispirazione con la verità dei fatti: la via Veneto rifatta per il suo capolavoro del 1960, quando fuori dalle chiese si raccomandava di pregare per la sua anima peccatrice, è più vera di quella autentica dove per anni la gente ha continuato a passeggiare guardandosi intorno in cerca dei personaggi del film, delle sue vestigia.
Federico amava ricreare tutto anche il mare di «E la nave va» un altro titolo meraviglioso, confessando alla fine i trucchi e la magìa della macchina cinema, ovvero le sue baracchette, come chiamava lui i progetti in ebollizione nella sua testa. In realtà, anche nel suo essere sempre altamente profetico (provate a risentire l’ultima battuta della «Voce della luna» sul bisogno di silenzio: mette i brividi…), Fellini radiografava non solo le sue origini di Rimini, anche geograficamente rivissute dal suo genio, ma osservando i mali endemici italiani, quelli vecchi e quelli nuovi come lo strapotere vertiginoso dei media, era capace di altezze ideologiche e poetiche vertiginose, arrivando a punte che il cinema non potrà mai più toccare né tanto meno imitare perché san Federico è un pezzo unico, un jolly della storia dello spettacolo italiano e della sua cultura.
E quindi è chiaro che non si trattava solo di Rimini, ma in quel nome, in quel cartello segnaletico, si riassume non solo la sua storia personale di famiglia, ma anche una stagione che poi con il cinema ha rivissuto consapevole di quello che sarebbe accaduto: era come se Fellini riuscisse con le sue capacità medianiche, mai aggettivo
Unico Con le sue capacità medianiche riusciva a scavalcare i confini di spazio e tempo
fu più congeniale, a scavalcare i confini di spazio e tempo, accendendo una luce quando meno te lo aspetti come nel finale di «8 e mezzo».
A un certo punto il sorriso del prestigiatore gli fa decidere che la vita è degna di essere vissuta e il film di essere fatto: poi si vedrà.
Non è un happy end, è un sospiro di intelligente e ragionata rassegnazione all’ordine delle cose. In quest’ordine c’è la prima stagione della gioventù che poi per Fellini coincideva anche con la scoperta della massima finzione, il cinema (lasciamo da parte un attimo il circo che rischia di diventare uno stereotipo) per cui ebbe sempre per lui una duplice valenza, un plus valore meraviglioso e inimitabile che ancora oggi ci arriva intatto a destinazione.