Aemilia, il colpo di coda del latitante
Il gesto eclatante a Reggio Emilia per protestare contro la sentenza che gli ha inflitto 19 anni di carcere Entra alle Poste e tiene in ostaggio i dipendenti: «Vi ammazzo tutti». Dopo 7 ore, la resa
Si è arreso dopo sette lunghe ore, Francesco Amato, condannato a 19 anni per mafia nel processo alla ‘ndrangheta. Armato di coltello, ha preso in ostaggio 5 dipendenti delle poste di Reggio Emilia. Ha chiesto di parlare con Salvini perché reputava ingiusta la condanna. Dopo ore di dialogo con i negoziatori dei carabinieri si è consegnato. Ostaggi incolumi.
È iniziato tutto nel 2011, quando i carabinieri di Fiorenzuola D’Arda, nel Piacentino, raccolgono la denuncia di un imprenditore per l’incendio della propria Bmw e un esposto anonimo.
Partono le indagini, che sulla scia di altre inchieste sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Reggiano e nel tessuto economico e sociale, scoprono che molti imprenditori hanno accettato di consegnare le chiavi delle proprie aziende al sistema criminale. L’inchiesta si allargherà a macchia d’olio e, attraverso pedinamenti e intercettazioni, toccherà tutte le province emiliane, fino a quando, nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 2015, l’EmiliaRomagna si scopre terra di criminalità organizzata a tutti gli effetti. Quel giorno, 117 persone vengono arrestate su esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare della Dda di Bologna per 189 capi di imputazione, tra cui l’associazione di stampo mafioso. Un’inchiesta scaturita in grandi numeri: 240 imputati, 160 arresti, 500 milioni di beni sequestrati, 78 parti offese, 32 parti civili, e che ha portato al più grande maxiprocesso contro la mafia al Nord. In Emilia comandava una cosca di ‘ndrangheta autonoma e indipendente, sotto il controllo del clan Grande Aracri di Cutro e con epicentro a Reggio Emilia: i suoi uomini si riunivano, prendevano decisioni, facevano affari, mettevano in atto estorsioni e intimidazioni, si arricchivano con le fatture false, si appropriavano di aziende, soprattutto edili, e le svuotavano. Hanno fatto fortuna anche con la ricostruzione post-terremoto del 2012, grazie ad appalti pilotati, a politici e colletti bianchi compiacenti. «Una borghesia mafiosa che fa affari con le cosche», viene definita nella sentenza d’Appello di Bologna, che nel 2017 conferma 40 condanne in abbreviato. E dieci giorni fa, il suggello della Cassazione, che conferma quasi tutte le condanne. Di questa borghesia faceva parte, ad esempio, la commercialista bolognese Roberta Tattini, condannata a 8 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver addirittura aiutato la cosca ad impossessarsi dell’azienda in crisi di un suo cliente. A tutti gli effetti, secondo la Dda, la fiscalista della cosca di Nicolino Grande Aracri. Ma c’erano anche il tecnico comunale Giulio Gerrini, il giornalista Marco Gibertini e il poliziotto Domenico Mesiano, tutti condannati in abbreviato nel 2016. Sempre nel 2016 il Comune di Brescello, proprio quello di Peppone e don Camillo, diviene il primo in Emilia-Romagna sciolto per mafia, per le infiltrazioni della ‘ndrangheta al suo interno. Una settimana fa un’altra storica sentenza, quella di primo grado per gli imputati che hanno scelto il dibattimento: 125 condanne per un totale di più di 1200 anni di carcere. La pena più alta per Carmine Belfiore, 21 anni e 4 mesi, reggente della cosca a Reggio Emilia; 21 a Gaetano Blasco, l’uomo che intercettato al telefono rideva del sisma nel 2012; 16 per uno dei vertici Gianluigi Sarcone e 19 a Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore Vincenzo (condannato a 2 anni).