Si barrica nelle Poste con quattro ostaggi Un incubo di sette ore, poi il latitante si arrende
«Non puoi ottenere quello che vuoi, se come dici hai un’anima, pensa a questa povera gente. Lasciali tornare dalle loro famiglie, hanno sofferto anche troppo». L’ultima esortazione del negoziatore apre la breccia decisiva quando ormai è calato il buio intorno alla palazzina di via Fratelli Cervi. La lingua d’asfalto davanti all’ufficio postale, un fortino assediato in mezzo a capannoni e concessionarie, brulica di carabinieri e forze speciali. L’uomo dall’altra parte della cornetta fa un cenno con la testa ai quattro ostaggi indicando la porta d’ingresso: «Andate», si limita a dire prima di gettare a terra il lungo coltello che ha tenuto stretto fin dal mattino e consegnarsi alle teste di cuoio.
Si è arreso dopo oltre sette interminabili ore di trattative Francesco Amato, 55 anni di Rosarno, condannato mercoledì scorso a 19 anni e 1 mese per associazione di stampo mafioso nel processo Aemilia e da allora latitante. La resa è arrivata in coda a una giornata nera che ha tenuto col fiato sospeso un’intera città e i familiari di cinque dipendenti delle Poste di Pieve Modolena (Reggio Emilia) presi in ostaggio fin dal mattino. Poco prima dopo le 9, Amato, inseguito da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere ma irreperibile da giovedì, è entrato con un coltellaccio da cucina nel piccolo ufficio postale, non lontano dalla casa di Cavazzoli dove abita con la famiglia, e si è barricato all’interno. «Sono quello condannato a 19 anni per Aemilia, uscite o vi ammazzo tutti», ha urlato verso i clienti. Non aveva un piano, se non quello di un gesto eclatante, dimostrativo, per attirare l’attenzione su di sé.
L’allarme che ha trasformato questa piccola frazione di Reggio Emilia in quello che per lunghe ore è apparso come il teatro di un blitz terroristico, è stato dato dalla figlia della direttrice che era arrivata per portare un pacco. In pochi minuti la stradina è stata circondata dai carabinieri e chiusa ai lati da due cordoni di sicurezza. I palazzi accanto sono stati evacuati, uno dopo l’altro sono arrivate le squadre antiterrorismo, poi i Gis, le forze speciali da Livorno, e il procuratore Marco Mescolini. Gli esperti hanno iniziato subito a negoziare, prima attraverso il vetro dell’ufficio, poi tramite il telefono della filiale. «Voglio parlare con il ministro Trenta, con Bonafede e Salvini, non sono un ‘ndranghetista, sono innocente, vittima della giustizia. Voglio un altro processo, non posso stare dentro per il resto della vita», urlava Amato. Sono state ore estenuanti, segnate dalla tensione, con il dialogo tra negoziatori e sequestratore che non si è mai interrotto anche se le teste di cuoio, arrivate con due furgoni anonimi, erano schierate per intervenire in qualsiasi momento visto che nessuno poteva escludere la presenza di armi. Che la strada della trattativa fosse da privilegiare si è capito intorno alle 11, quando Amato ha lasciato andare una cassiera, Annalisa Caluzzi, che si era sentita male. Un’apertura seguita ad altre concessioni, come quella di far parlare gli ostaggi al telefono con i familiari.
Alle 16.52 Amato, ormai in un vicolo cieco, si è arreso e ha fatto uscire gli ostaggi, tutti incolumi. «Lo abbiamo convinto facendo appello alle sue asserite credenze religiose, con pazienza. I negoziatori sono entrati in sintonia con lui: era stremato, quando ha capito che non avrebbe ottenuto ciò che voleva si è arreso», ha detto il comandante provinciale dei carabinieri, Cristiano Desideri, sul posto con il generale e comandante regionale Claudio Domizi.