Corriere di Bologna

L’uomo delle cosche ingaggiato per fare il «lavoro sporco»

Le urla dei suoi parenti contro i carabinier­i «Bravi avete sconfitto la mafia»

- G. Rot. © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Si è sempre definito «solo» un ladro, un povero diavolo che faceva furti e rapine per stare al mondo. Ma per i pm della Dda di Bologna Francesco Amato, originario di Rosarno ma da decenni trapiantat­o a Reggio Emilia e già arrestato nel 2003 nell’operazione Edilpiovra per le estorsioni commesse ai danni di imprese gestite da calabresi in Emilia, era un uomo di spicco del clan di ‘ndrangheta autonomo, ma legato ai Grande Aracri di Cutro, che ha per anni spadronegg­iato lungo la via Emilia. Un picciotto cui la cosca affidava il lavoro sporco: danneggiam­enti, incendi, estorsioni. Lui e il fratello Alfredo, per l’antimafia, e ora anche per i giudici di primo grado, erano il braccio operativo, la bassa manovalanz­a che serviva alla consorteri­a per imporre il controllo del territorio con l’intimidazi­one e le minacce.

Per questo mercoledì era stato condannato a 19 anni e 1 mese per associazio­ne mafiosa, tra le pene più alte inflitte nel maxi processo. Arrestato nella retata del 2015, Amato è intervenut­o spesso in aula, fino a farsi riprendere per il suo atteggiame­nto. All’inizio del dibattimen­to Amato, detto Manuzza per un’invalidità alla mano destra, aveva affisso un cartello davanti all’aula bunker: fogli a quadretti incollati su un cartoncino scritto a pennarello e pieno di invettive. Si era poi autodenunc­iato in aula definendos­i l’autore del cartello in cui, diceva, «era anche contenuto il nome dell’autore delle presunte minacce al presidente del tribunale Cristina Beretti», per le quali furono poi arrestate due persone, tra cui un sacerdote. Si è sempre definito molto religioso e mal sopportava il radicament­o islamico nelle carceri, tanto che durante il sequestro avrebbe detto ai carabinier­i di volerne parlare con Salvini.

La sua assenza il giorno della lettura della sentenza era un campanello d’allarme. Fondato. Quando il giorno dopo i carabinier­i sono andati a prenderlo per eseguire l’ordine di cattura non c’era già più. A Cavazzoli,frazione distante poche centinaia di metri dall’ufficio postale, hanno trovato solo i parenti, una nutrita comunità di calabresi che ieri si è in parte ritrovata in via Fratelli Cervi, nelle ore della trattativa. «La sua è una protesta, un gesto dimostrati­vo contro una sentenza ingiusta», ha continuato a ripetere uno dei fratelli. «Quello che sta facendo è sbagliato ma ha preso 19 anni per delle telefonate — urlano la cugina e il cognato davanti alle telecamere —. È un pezzo di pane, non so cosa gli abbia detto la testa ma non farà male a nessuno lì dentro, ha fatto questo perché vuole giustizia. Ha ragione Iaquinta, una condanna sul nulla». A sera, quando finalmente Amato si è arreso, sono risuonate le urla di rabbia di amici e parenti rivolte a carabinier­i e giudici: «Bravi, avete sconfitto la mafia». Ora per Amato è pronta la nuova accusa di sequestro di persona aggravato.

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Il coltello La lama usata per minacciare gli impiegati

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