CONCILIARE LA GRASSA E LA DOTTA
Mentre si festeggia il suo primo anniversario, viene da chiedersi se la Fabbrica Italiana Contadina stia attraversando quel grave disturbo dello sviluppo il cui nome è Sindrome di Artusi. Del grande gastronomo romagnolo, autore de «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene», si racconta che egli avesse scritto così di Bologna: «È un gran castellazzo dove si fanno continue magnazze». Ciò che s’intravede tra le righe della cronaca è che quella Fabbrica non pare aver sagomato un modello di stretta interconnessione tra lo stomaco di Bologna la Grassa e la mente di Bologna la Dotta; tra l’economia dell’alimentazione e della gastronomia e l’economia dei beni culturali. Come incoraggiare l’incontro tra la realtà materiale dell’ampia gamma dei locali e dei mille e più taglieri che offrono cibo e l’immateriale di un largo ventaglio di espressioni dell’ingegno, quali sono i beni artistici, archeologici, musicali, scientifici e paesaggistici che contraddistinguono la bellezza della Dotta? La risposta sta nel contenuto cognitivo dei prodotti che sta diventando più prezioso delle cose fisiche utilizzate per fabbricarli. Per Bologna la cui impronta genetica è la sua millenaria università, l’affermarsi del capitalismo cognitivo è, per gli orizzonti di opportunità che apre, un evento imperdibile. Mentre il formarsi di una faglia tra la «città dei taglieri» e la «città dei saperi» creerebbe le condizioni favorevoli a sismi d’intensità tale da recare seri danni al tessuto economico e sociale.
Se Fico s’identifica con l’arte di immaginare come il cibo possa essere visto in tanti e differenti modi, purtroppo il pensare della Fabbrica non ha finora offerto idee fresche ai tanti ristoratori che già affollano il centro storico, tanto da invogliarli a proporsi diversamente. La vicinanza tra la Fabbrica e la città che vuole innovare non si ottiene con bus e navette. Chi governa Fico dovrebbe anzitutto dimostrare che la «I» e la «C» del suo acronimo non stanno solo per «Italiana» e «Contadina», ma anche per «Innovazione» e «Cultura». Non bastano i convegni o le scolaresche in visita a poter fare da ponte. Più promettente apparirebbe lo scenario che vedesse quel parco tematico in sintonia col movimento culturale degli artigiani digitali la cui presenza a Bologna è un forte segnale di coinvolgimento dei nuovi imprenditori nelle trame del capitalismo cognitivo. Avendo padronanza degli attrezzi tecnologici più innovativi, quegli artigiani modellano organizzazioni che prosperano grazie alla tensione tra punti di vista molto diversi ma anche complementari. È così che il loro movimento s’incontra e si fonde con le avanguardie culturali, facendo nascere imprese all’incrocio tra due capitalismi, l’industriale e il cognitivo. Alla stessa stregua, tradizioni e innovazioni di sapori e di saperi potrebbero tracciare una via di mezzo da percorrere insieme. Entrambi simboli di ricchezza, cibo per lo stomaco e cibo per la mente sono protagonisti dell’incessante storia dell’intreccio tra ben-avere e ben-essere. Una storia che narra di complessi elementi sia materiali che intangibili il cui valore dipende dalla cultura specifica della comunità che li padroneggia. Da un lato, è il potere della creatività che permette di riconciliare la Grassa con la Dotta, individuando modi e mezzi per l’interdipendenza tra imprese, consumatori e patrimonio culturale. Dall’altro, interviene l’abilità nella comunicazione, nell’adattarsi a forme innovative d’informazione, nella lettura delle emotività individuali e sociali, nell’anticipare opportunità e ostacoli. Non vorremmo davvero che quella Fabbrica degradasse a cattedrale in un deserto intellettuale, affollata da turisti cinesi sbarcati in massa al Marconi per poi tornare a casa con l’immagine di Bologna «castellazzo per grandi magnazze».