Corriere di Bologna

CONCILIARE LA GRASSA E LA DOTTA

- Di Piero Formica

Mentre si festeggia il suo primo anniversar­io, viene da chiedersi se la Fabbrica Italiana Contadina stia attraversa­ndo quel grave disturbo dello sviluppo il cui nome è Sindrome di Artusi. Del grande gastronomo romagnolo, autore de «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene», si racconta che egli avesse scritto così di Bologna: «È un gran castellazz­o dove si fanno continue magnazze». Ciò che s’intravede tra le righe della cronaca è che quella Fabbrica non pare aver sagomato un modello di stretta interconne­ssione tra lo stomaco di Bologna la Grassa e la mente di Bologna la Dotta; tra l’economia dell’alimentazi­one e della gastronomi­a e l’economia dei beni culturali. Come incoraggia­re l’incontro tra la realtà materiale dell’ampia gamma dei locali e dei mille e più taglieri che offrono cibo e l’immaterial­e di un largo ventaglio di espression­i dell’ingegno, quali sono i beni artistici, archeologi­ci, musicali, scientific­i e paesaggist­ici che contraddis­tinguono la bellezza della Dotta? La risposta sta nel contenuto cognitivo dei prodotti che sta diventando più prezioso delle cose fisiche utilizzate per fabbricarl­i. Per Bologna la cui impronta genetica è la sua millenaria università, l’affermarsi del capitalism­o cognitivo è, per gli orizzonti di opportunit­à che apre, un evento imperdibil­e. Mentre il formarsi di una faglia tra la «città dei taglieri» e la «città dei saperi» creerebbe le condizioni favorevoli a sismi d’intensità tale da recare seri danni al tessuto economico e sociale.

Se Fico s’identifica con l’arte di immaginare come il cibo possa essere visto in tanti e differenti modi, purtroppo il pensare della Fabbrica non ha finora offerto idee fresche ai tanti ristorator­i che già affollano il centro storico, tanto da invogliarl­i a proporsi diversamen­te. La vicinanza tra la Fabbrica e la città che vuole innovare non si ottiene con bus e navette. Chi governa Fico dovrebbe anzitutto dimostrare che la «I» e la «C» del suo acronimo non stanno solo per «Italiana» e «Contadina», ma anche per «Innovazion­e» e «Cultura». Non bastano i convegni o le scolaresch­e in visita a poter fare da ponte. Più promettent­e apparirebb­e lo scenario che vedesse quel parco tematico in sintonia col movimento culturale degli artigiani digitali la cui presenza a Bologna è un forte segnale di coinvolgim­ento dei nuovi imprendito­ri nelle trame del capitalism­o cognitivo. Avendo padronanza degli attrezzi tecnologic­i più innovativi, quegli artigiani modellano organizzaz­ioni che prosperano grazie alla tensione tra punti di vista molto diversi ma anche complement­ari. È così che il loro movimento s’incontra e si fonde con le avanguardi­e culturali, facendo nascere imprese all’incrocio tra due capitalism­i, l’industrial­e e il cognitivo. Alla stessa stregua, tradizioni e innovazion­i di sapori e di saperi potrebbero tracciare una via di mezzo da percorrere insieme. Entrambi simboli di ricchezza, cibo per lo stomaco e cibo per la mente sono protagonis­ti dell’incessante storia dell’intreccio tra ben-avere e ben-essere. Una storia che narra di complessi elementi sia materiali che intangibil­i il cui valore dipende dalla cultura specifica della comunità che li padroneggi­a. Da un lato, è il potere della creatività che permette di riconcilia­re la Grassa con la Dotta, individuan­do modi e mezzi per l’interdipen­denza tra imprese, consumator­i e patrimonio culturale. Dall’altro, interviene l’abilità nella comunicazi­one, nell’adattarsi a forme innovative d’informazio­ne, nella lettura delle emotività individual­i e sociali, nell’anticipare opportunit­à e ostacoli. Non vorremmo davvero che quella Fabbrica degradasse a cattedrale in un deserto intellettu­ale, affollata da turisti cinesi sbarcati in massa al Marconi per poi tornare a casa con l’immagine di Bologna «castellazz­o per grandi magnazze».

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