Parla il negoziatore: «Le mie 7 ore al telefono con il sequestratore»
Reggio Emilia, parla il maresciallo Sias, il negoziatore che è riuscito a portare Amato alla resa: «L’ho convinto con la fiducia e spiegandogli che stava riversando su degli innocenti le ingiustizie che diceva di aver subito»
” Lui diceva “non cercate di fregarmi” e teneva il coltello puntato sulla nuca dell’unico ostaggio maschio. È stato così per oltre due ore, poi la sua voce è cambiata, come rotta dall’emozione, ed è finita
Per sette interminabili ore è rimasto davanti a quella vetrata, senza mai perdere il contatto visivo con il sequestratore e gli ostaggi. Un lavoro paziente, una tela tessuta parola dopo parola. Il maresciallo maggiore Antonello Sias, 40 anni della provincia di Oristano, è in servizio al nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio Emilia, ma è soprattutto un negoziatore dell’Arma specializzato in situazioni critiche, come quella che ieri ha tenuto con il fiato sospeso una città intera. È stato lui, insieme a un negoziatore di secondo livello del Gis, il gruppo d’intervento speciale, il terminale della difficile trattativa con Francesco Amato, il 55enne condannato a 19 anni per mafia che si è barricato nell’ufficio postale con un coltello e ha tenuto in ostaggio cinque dipendenti. «Un soggetto appartenente al clan, pericoloso, come emerso nel processo», ha detto il procuratore Marco Mescolini, confidando di «aver temuto il peggio per gli ostaggi» e riservandosi altre indagini su quanto accaduto.
Maresciallo, quando siete stati attivati?
«Appena ricevuto l’allarme. In pochi minuti eravamo a disposizione del comandante provinciale. I colleghi in supporto mi hanno dato la possibilità di concentrarmi subito sul sequestratore. Il primo approccio è stato attraverso la vetrata, poi l’ho chiamato al telefono e si è stabilito un primo contatto, tra molte difficoltà».
Di che tipo?
«Ha chiesto di parlare con il ministro Salvini, lo voleva sul posto perché in lui riponeva le ultime speranze di essere ascoltato. Non aveva altre richieste nè tanto meno intendeva parlare con noi».
Un primo ostacolo, come lo avete superato?
«Mi sono messo in contatto con il negoziatore del Gis, i nostri coordinatori e direi professori, per un’analisi degli scenari, in attesa del suo arrivo. Si è deciso di non fare promesse ma di tenere aperta una porta per impostare un dialogo. Nel frattempo sono arrivate molte informazioni sull’offender, in questo caso Francesco Amato, un soggetto che conosciamo bene. Piano piano abbiamo costruito un rapporto di fiducia».
Qual era la situazione degli ostaggi?
«Un fattore importante è stato quello di aver sempre mantenuto il contatto visivo, ciò ci ha consentito di monitorare i suoi atteggiamenti. Il linguaggio del corpo spesso è in antitesi con quello della parola. Agitava il coltello ma non lo puntava verso di loro. Li ha lasciati liberi di muoversi, concedendo loro di parlare al telefono con i familiari. Un’apertura importante, come il rilascio della prima dipendente. Lo abbiamo ringraziato per fargli capire che era un gesto significativo. Tutto sembrava andare nella direzione giusta, poi qualcosa si è inceppato».
Una fase di stallo che si è percepita chiaramente all’esterno. Cosa è accaduto?
«Alle 13,30 Amato ha avuto la sensazione che si stesse preparando un’irruzione, temeva ci fossero i cecchini pronti ad entrare in azione. Si è innervosito, ha chiesto di far allontanare tutti i carabinieri dalla vetrata. Voleva che restassimo solo noi negoziatori. A quel punto ha intimato all’unico ostaggio maschio di sedersi davanti a lui, gli si è messo dietro e gli ha puntato il coltello alla schiena. È stato in quella posizione per due ore e mezza, era fortemente stressato. Diceva: “non cercate di fregarmi, se fate l’assalto qualcuno si fa male sul serio”, poi ha puntato il coltello alla nuca dell’uomo».
Quanto è stata concreta l’opzione del blitz?
«È sempre stata in campo, il dispositivo per neutralizzarlo era pronto anche perché non si poteva escludere che avesse altre armi. Bisogna comprendere però che il nostro obiettivo è quello di tutelare l’incolumità di tutti, anche del sequestratore. La strada maestra è sempre il dialogo, almeno fino a quando non ci sono alternative. La strategia veicolata dal coordinatore dei negoziatori ha subito un rallentamento, così abbiamo lavorato per tranquillizzarlo e riprendere il filo del dialogo».
Come lo avete convinto?
«Con il rispetto, la fiducia, l’empatia, facendogli capire che comprendevamo la sua situazione pur senza condividerla. Gli ostaggi sono stati eccezionali, mai una sbavatura. Poi abbiamo fatto leva sulla sua religiosità, che sapevamo forte dalle informazioni in nostro possesso, lo abbiamo portato a riflettere sul fatto che l’ingiustizia che diceva d’aver subito la stava riversando su degli innocenti, cosa che un vero cristiano non fa. Abbiamo insistito sulla sofferenza di quelle persone e dei loro familiari. Messaggi che hanno fatto breccia, tanto che si è allontanato dall’ostaggio e ha smesso di puntargli contro il coltello. Alcuni segnali ci hanno fatto capire che stavamo andando verso la soluzione».
Che tipo di segnali?
«Il linguaggio del corpo, il tono della voce cambiato all’improvviso, come rotto dalla commozione. Era esausto, scosso, consapevole di non potere andare oltre. Ha fatto un cenno e ha lasciato uscire gli ostaggi, dopo aver gettato il coltello si è consegnato e cercato la nostra comprensione».