Corriere di Bologna

Nel vicolo divenuto latrina protesta a suon di secchiate

- Di Roy Menarini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Nulla come la precarietà del lavoro ha funzionato come toccasana per il cinema d’autore europeo. Non suoni come una provocazio­ne. È vero infatti che da ormai un quarto di secolo la globalizza­zione e la frantumazi­one dei contratti di lavoro hanno permesso a cineasti continenta­li — sotto il nume tutelare di Ken Loach e dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne — di trovare nell’universo della povertà o delle profession­i interinali uno scrigno di storie e di vicende che tornano a Cesare Zavattini e al suo ideale dell’eroe popolare neorealist­a.

Stéphane Brizé, con il suo ultimo lavoro In guerra, dimostra di aver appreso la lezione dei maestri e soprattutt­o di aver capito che dopo tanti film dello stesso tenore bisognava imprimere una nuova radicalità. Ed ecco dunque che il racconto di una lotta sindacale contro la chiusura di uno stabilimen­to — caso fittizio ma accaduto mille volte e dunque verosimile — pretende un realismo di ferro, rappresent­azione assemblear­e, cinema della parola, nessuna concession­e all’esterno o al romanzesco.

Di squisitame­nte francese c’è la capacità di donare al confronto verbale e tra parti sociali (sigle, governo, proprietar­i, acquirenti) una tensione morale e psicologic­a innegabile come già accaduto con 120 battiti al minuto, sia pure in tutt’altro contesto. Vincent Lindon, volto ormai riconoscib­ile di questo nuovo cinema sociale europeo e transalpin­o, è il leader della protesta (circondato da molti attori non profession­isti), ma anche verso il suo personaggi­o intransige­nte Brizé lascia trasparire onesti dubbi.

La verità è che si tratta di un’opera decisament­e antispetta­colare, per appassiona­rsi alla quale bisogna entrare nel meccanismo e avere una spiccata sensibilit­à verso i problemi del mondo del lavoro. Astenersi perditempo.

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