GUERRITORE CORAGGIOSA E RIBELLE
L’attrice giovedì al Duse con «Giovanna D’Arco»: «Oggi abbiamo bisogno della sua forza. Bologna? Sensuale, colorata e giovane. La amo »
Un corpo femminile scattante, muscoloso, coperto di pezzi d’armatura. Monica Guerritore è la Pulzella d’Orleans, l’eroina, la ribelle che ha in sé qualcosa di Che Guevara, di Martin Luther King, degli studenti di piazza Tien An Men. L’attrice presenta al Teatro Duse, giovedì alle 21, Giovanna D’Arco, spettacolo scritto, diretto e interpretato da lei, con le proiezioni di Enrico Zaccheo.
Signora Guerritore, perché riprende un lavoro del 2004?
«Perché Giovanna D’Arco è una donna dotata di una forza che non ha fine. Abbiamo bisogno del suo coraggio, non più contro l’Inquisizione o lo Stato ma contro altri poteri: la propaganda, i mass media, capaci ugualmente di annichilire il singolo essere umano».
Il coraggio però non è una virtù diffusa…
«Credo che dorma in ognuno, anche se non ne abbiamo la consapevolezza. E però riusciamo a tirarlo fuori quando se ne presenta l’occasione, come quegli uomini che nell’incendio sulla tangenziale di Bologna si sono gettati nel fuoco per salvare vite umane».
Lei di coraggio nella sua vita ne ha avuto moltissimo, a partire da quando scelse di recitare in teatro a soli 16 anni…
«Furono il caso e il mio mentore, Giorgio Strehler, a lanciarmi sul palcoscenico per Il giardino dei ciliegi. Era il 1974 e quell’inizio mi ha segnata: per me il teatro deve essere opera d’arte, un’espressione altissima di umanità».
Poi nel 1982 arrivò Lavia, con uno spettacolo aggressivo, avviluppante, I masnadieri…
«Gabriele era figlio di Strehler anche lui. Fui scioccata dal suo Amleto, fisico, virile, coraggioso. Mi affascinò e da allora con lui cominciò un’esperienza che mi ha coinvolto a lungo, come attrice e come donna (con Lavia è stata sposata a lungo e da lui ha avuto due figlie, ndr). Da lì mi è derivata un’idea di teatro non estetico ma fisico, da affrontare con corpo d’atleta, che poi ho sviluppato con Giancarlo Sepe, guardando al metodo di Pina Bausch».
Anche nel cinema è stata così radicale?
«Ho fatto film che non mi piacevano e film meravigliosi, come Un giorno perfetto di Özpetek e La lupa. Lavorare con Paolo Genovese mi diverte, è un regista di talento. Mi sono piaciuti lavori televisivi come Exodus o Il sogno di Ada Sereni, una donna che portò 15mila ebrei in Palestina. Sto preparando come autrice un programma sull’assassinio della contessa Trigonia, zia di Tomasi di Lampedusa: un femminicidio».
Attrice e autrice...
«Sembra strano per una donna, vero? Nessuno si meraviglia che Lavia e Popolizio siano autori. Scrivo i miei spettacoli, come ho fatto riadattando Mariti e mogli di Woody Allen».
Un suo no televisivo è stato quello al secondo ciclo della fiction Non uccidere.
«Era un progetto profondo: il protagonista era un commissario ossessionato dalla ricerca della verità, che aveva alle spalle la scena primaria della madre assassina del padre. Io ero l’omicida, che a un certo punto esce di prigione. Nella seconda serie era previsto un approfondimento del personaggio, e invece la sceneggiatura ha preso una piega più banale e ho rifiutato di continuare».
È stata anche un simbolo di sensualità…
«Ora punto piuttosto su una fisicità muscolare, sul sudore, su un’energia diversa rispetto a quella di anni fa. Su una presenza che diventa quasi uno shock, perché la gente non è più abituata ai corpi, ma alla realtà diminuita dei videogiochi, degli schermi di computer e tv».
Bologna?
«La amo e ci vengo sempre volentieri. Vi trovo la sensualità, i colori, la giovinezza, il melting pot, gli studenti, le razze diverse, la storia. Ora sono felice di tornare al Duse: negli anni della sua crisi era triste vedere quella strada spenta».