Corriere di Bologna

«Se cammino vivo» Gli 11 mila km a piedi del giornalist­a Spinelli malato di cancro

Il giornalist­a

- Paola Gabrielli © RIPRODUZIO­NE RISERVATA Andrea Tinti © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

«La parola fa paura. Quando lo hanno detto a me, ho attraversa­to quei 20 secondi di buio e mi sono chiesto? Cos’è che ho? Un cancro al pancreas? Quasi non sapevo cosa fosse». Pochi mesi di vita avevano dato ad Andrea Spinelli, colpito a fine 2013 da un adenocarci­noma alla testa del pancreas. Ci convive «un passo alla volta», come dice lui. E di passi si tratta, visto che, ripresosi dai devastanti cicli di chemiotera­pia, ha deciso di camminare. Da gennaio 2017 ad oggi ha effettuato circa 11 mila chilometri. Oggi alla libreria Feltrinell­i di piazza Ravegnana presenta Se cammino vivo. Se di cancro si muore pur si vive (ed. Ediciclo. Ore 18, interviene Giorgia Olivieri. Incontro promosso dall’associazio­ne Nastro Viola). Sentire parlare Andrea al telefono, 45 anni, giornalist­a, trasmette una voglia di vita che nemmeno il terapeuta più ottimista. Ne va fiero. «Peccato essere al telefono: se mi vedesse non direbbe “questo ha un cancro”». Non si è arreso neanche di fronte alla disperazio­ne dell’oncologo. «Nel novembre del 2015 non c’era più nulla da fare. Il cancro era solo fermato. Ma una tempesta del genere ti cambia la scale dei valori. L’amore ora è tra i primi posti, quand prima c’erano lavoro e soldi. E se prima avessi potuto avrei parcheggia­to anche dentro un supermerca­to». Il primo tragitto? Casaospeda­le. 15 chilometri, «davanti allo stupore dei medici». Non si è più fermato. La via Francigena, il Cammino di Santiago. Da Tarvisio all’Oceano Atlantico e quando è arrivato l’ha gridato al mare. Quello che lo ha più segnato? «Roma-Assisi». Non chiamatelo sopravviss­uto. «Sono un sopravvive­nte. A ogni mese di chemio infilavo un anello. 16 mesi, 17 anelli. Il 17mo è la fede di matrimonio». ha legato il suo nome indissolub­ilmente al grunge. Il primo singolo, Touch me, I’m sick, deflagrò sul pianeta nel 1988, la canzone fu poi ripresa in un altro split singolo insieme ai Sonic Youth. Il primo omonimo album dei Mudhoney (1989) ed il secondo LP del 1991 portarono la band alla firma di un contratto con la Reprise. Tutte le multinazio­nali del disco in quegli anni aprirono un ufficio in città in cerca di band da produrre. I Mudhoney, però, non si piegarono alle esigenze del mercato. Rimasero cattivi, sporchi e malati. Le vendite dei tre album con la Reprise non sortirono gli effetti sperati e alla fine del contratto i Mudhoney furono lasciati liberi.

Iniziò quindi un periodo buio, Mark era uscito da alcuni anni di pesante abuso di droga, il bassista abbandonò e i Mudhoney sembravano una nave in balia delle onde. L’attività live, però, non s’interruppe e i nostri riscopriro­no la voglia e l’energia per continuare. Ovviamente la Sub Pop non si era dimenticat­a di loro e riportò il gruppo ad una seconda giovinezza. «Since We’ve become translucen­t» (2002), «Under a billion suns» (2006), «The lucky ones» (2008), «Vanishing point» (2013) e «Digital garbage» (2018) hanno mantenuto in auge il nome e la storia dei Mudhoney. Qualcuno si ricorda ancora la copertina del loro terzo singolo del 1989, Burn it clean, perché i ragazzi resero omaggio ad una foto entrata nella storia del rock, quella sull’album delle inglesi The Slits. I Mudhoney sono dei sopravviss­uti (i morti per droga e suicidi si sprecano nel grunge) che sono ancora in giro con il loro suono sporco e malato.

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SeattleI Mudhoney in una foto recente durante un esibizione allo Space Needle di Seattle, la loro città di origine e capitale mondiale della scena «grunge» degli anni ‘90. I Mudhoney, per stessa ammissione di Kurt Cobain, ispirarono i Nirvana. La band stasera è al Locomotiv, la data è sold put
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