«Le Torri e le lettere» I grandi scrittori bolognesi
Il libro di Bonazzi è una ricognizione, dal 1200 a oggi, degli autori cittadini
Una storia dell’attività letteraria bolognese, dal Duecento con il «padre» Guido Guinizzelli sino a voci dei nostri giorni come Enrico Brizzi, Grazia Verasani, Carlo Lucarelli e Simona Vinci. Le 376 pagine del volume Le Torri e le Lettere del bolognese Gabriele Bonazzi, da poco uscito per Pàtron, contengono un’ampia ricognizione lungo i secoli. Compiuta spulciando tra biblioteche e archivi cittadini per ripescare autori di cui si è persa memoria come Rambertino Buvalelli e Ovidio Montalbani.
Bonazzi ha insegnato a lungo storia e filosofia in licei bolognesi e negli ultimi anni, oltre a occuparsi di teatro, ha pubblicato opere come Bologna nella storia e Bologna in duecento voci. Nell’introduzione avverte che «anche gli scrittori bolognesi contemporanei non godono — pare — di grande visibilità, visto che pochi anni or sono agli studenti del Liceo Galvani lo scrittore Stefano Benni suggeriva giustamente di informarsi su un poeta bolognese recentissimo come Roberto Roversi». Proprio perché gli autori scomparsi dai radar sono troppi, appare ancor più meritorio il tentativo di Bonazzi, che ha dovuto tener conto di protagonisti non sempre di origini bolognesi, anche se fortemente legati alla città, da Giosuè Carducci a Giovanni Pascoli.
L’itinerario parte dagli albori della storia letteraria nazionale, prima con notai e giuristi che ebbero il merito di avviare le lettere a Bologna, e poi con quello «stil novo» che, prima di diffondersi in Toscana con Cavalcanti e Dante Alighieri, ebbe inizio in città con Guinizzelli. Lungo il viaggio si incontrano personaggi chiave come Giulio Cesare Croce, l’iniziatore della letteratura dialettale bolognese, che scelse di portare i suoi versi nelle strade rifiutando di seguire le orme del padre, fabbro a San Giovanni in Persiceto. Un interesse, quello per il dialetto, coltivato poi dal monaco olivetano Adriano Banchieri, anche musicista e commediografo, che nel suo Discorso per fuggire l’otio estivo, dove si prova, che la favella bolognese precede la toscana così in prosa, come in rima (1622), teorizza seppur in tono scherzoso la superiorità del «zanzar Bulgnes» sul toscano. Nel ‘500 a promuovere le lettere a Bologna furono soprattutto le accademie, dai Sonnacchiosi agli Ardenti, ma il libro tratteggia i tanti altri passaggi, dai Marinisti agli Arcadi, dai tragediografi ai classicisti. Per arrivare agli anni in città di Carducci e del suo successore Pascoli, che definì Bologna «mia buona madre». Notevole spazio nella disamina, condita da abbondanti citazioni e da una densa bibliografia finale, occupa la letteratura in dialetto, che si tratti di poesia, prosa o teatro, a partire da Alfredo Testoni. E poi, di seguito, il romanzo storico con Riccardo Bacchelli, la letteratura della Resistenza di Renata Viganò, l’esperienza della rivista Officina di Roberto Roversi, Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini, la nascita del Gruppo 63 con, tra gli altri, Anceschi, i fratelli Guglielmi, Eco e Balestrini.
L’attività letteraria a Bologna appare, a una visione superficiale, sottolinea Bonazzi, «come un edificio non sfarzoso, bisognoso di ripulitura e restauro con molte stanze chiuse da tempo». Eppure ricco di «stanze, ballatoi, nicchie, decorazioni e soprattutto di non pochi arredi di pregio». In cui il contributo letterario dell’antico Studium universitario è connesso alla seconda metà del ‘900 quando, ancora dall’Alma Mater, da Lettere e dal Dams, verranno fuori scrittori che da Bologna conquisteranno la ribalta nazionale.
La nostra letteratura è ricca di stanze chiuse da tempo, ballatoi, nicchie, decorazioni e arredi di pregio ma bisognosi di una ripulita, un restauro