IL PARTITO CHE ANCORA NON C’È
C’è ancora un futuro politico per Matteo Renzi, l’uomo che ha portato il Pd al massimo e al minimo storico nel giro di pochi anni? Difficile rispondere a questa domanda con un sì o con un no secco. Di sicuro un futuro ce l’avrebbe ancora se fosse sparito davvero dopo la sconfitta del referendum del 4 dicembre 2016, non per ottemperare ad una promessa che poi è diventata affare di dibattito pubblico, ma perché avrebbe creato il vuoto. E in questi tempi, in cui il finto rapporto dei leader con il proprio elettorato è quasi morboso e nei quali la popolarità va su e giù come le montagne russe, sparire funziona. A patto di sparire davvero. Ma visto che né la storia né l’analisi politica si fanno con i se e con i ma, tanto vale farsi la stessa domanda nel contesto attuale. Si può allora rispondere in un altro modo: di sicuro Renzi non ha più un futuro politico nel Pd, il suo partito. Ed è per questo che probabilmente sta pensando di dare vita ad una nuova forza politica (come fece Macron) e che poi si allei con il Pd alle elezioni. L’ex premier potrebbe essere pronto a fare la cosa che mai aveva voluto fare: uscire dal partito e dare vita ad una forza che attragga i delusi dal governo e l’elettorato moderato. Una scelta del genere creerebbe uno tsunami politico in Emilia e a Bologna perché la recente storia amministrativa di queste terre ha avuto molto a che fare con la parabola di Renzi.
Gli ultimi sondaggi hanno confermato un calo del Movimento Cinque Stelle e una tenuta della Lega che negli ultimi mesi ha mangiato molti consensi al movimento di Grillo: complessivamente le due forze di governo sembrano avere ancora il consenso di circa il 60% degli italiani. Come si spiega allora il trasversale fronte di malcontento che c’è nel Paese e che ha trovato finora nella piazza di Torino la maggiore rappresentanza? Come si spiega la protesta del partito del Pil che va dagli artigiani a Confindustria o le preoccupazioni della Chiesa e del mondo cattolico che si aggiungono all’opposizione scontata che viene da sinistra? Semplice: si trascura il fatto che il governo ha il favore del 60% di un altro 60% circa, cioè la quota degli italiani che è disposta a votare per uno dei partiti in campo in questo momento. Questo significa che c’è un 40% degli italiani o quasi che si trova senza rappresentanza. La matematica dice che se il consenso del governo è il 60% del 60%, allora ci deve essere un’altra maggioranza, non sempre silenziosa, potenzialmente critica nei confronti dell’esecutivo. Una maggioranza che non trova rappresentanza. Inutile girarci intorno: il Pd allo stato attuale viene visto come una bad company non in grado di costruire l’alternativa. C’è un altro elemento: Salvini e Di Maio hanno portato la politica italiana oltre le colonne d’Ercole del centrosinistra e del centrodestra, hanno rotto il paradigma delle alleanze. In particolar modo Salvini è stato abile a fare un governo con una forza che a parole era distante anni luce dalle sue posizioni e a tenere in piedi l’alleanza con Forza Italia a livello locale. Difficile che le forze antipopuliste abbiano chance di competere nel sistema politico se restano fedeli agli schemi del passato. È probabile che ci sia bisogno di una nuova forza che sappia rappresentare la maggioranza silenziosa e che dia risposte al partito del Sì che si è mosso per difendere la Tav, l’Europa, il lavoro, i conti pubblici e perfino la collocazione internazionale dell’Italia. Resta tutto da dimostrare se Renzi sia l’uomo giusto e abbia ancora le parole giuste per rimettersi in marcia.