Corriere di Bologna

Ieri e oggi: il calcio italiano secondo Pecci

Esce il nuovo libro «Ci piaceva giocare a pallone»: ricordi ed emozioni rossoblù

- di F. Pellerano

Sostiene Pecci. «Il calcio è diverso ma funziona ancora», resiste nel tempo con le sue mille bellezze, quelle di ieri, ricche di relazioni umane e passioni forti, quello di oggi, con i suoi formidabil­i campioni globali.

«La passione resiste. Un bel gol è sempre un bel gol». Giocava con facilità, scrive con facilità Eraldo Pecci. In entrambi i casi puro divertimen­to. Due anni fa il libro sullo scudetto del Toro, oggi invece con «Ci piaceva giocare a pallone» (ed. Rizzoli, 253 pagg.) con tanto rossoblù. Racconti di un calcio che non c’è più e di un’Italia trasformat­a, dissolta e in difficoltà. Un po’ come il Bologna di oggi su cui dice poche cose ma chiare, «vince chi ha i giocatori migliori, al Bologna manca la qualità, va tirata fuori, c’è tempo per recuperare, ci sono 6/7 squadre con cui ora devi lottare, in prospettiv­a però dovrebbe farlo non con Juve e Inter, ma con Samp e Toro sì. L’allenatore? Incide sui bambini, sui profession­isti fa poco, conta il materiale a disposizio­ne». È un Pecci biografico e solare che parte dalla Riviera del boom, dove «bastava poco per». Barista con la cassetta sotto quei piedi (numero 45) che saranno la sua fortuna. Fenomeno e predestina­to nel Superga di Cattolica, poi nel Bologna e così via. Molesto a scuola, in campo che vinceva da solo (una volta nella Primavera rossoblù, quando si poteva, battè tutti i rigori della «lotteria»). Gol e amici a profusione (di gag), con Rasmen, Borghini, Zelinda, Ballardini e altri mai dimenticat­i. Capitoli brevi e ficcanti come un assist. O un contrasto vinto. O perso, perché succede. Pecci ricorda e tramanda. Il dirigente Giorgio Neri che lo volle a Bologna (bruciando la Spal di Mazza e la Juve con tanto di provino), Cervellati, Mazzanti, Vavassori i compagni della Primavera del ’73 (finalista al Viareggio), la stanza alla Virtus divisa con Grop (noto per i puzzle e le bestemmie), Mei claustrofo­bo e sonnambulo («chiudete le finestre», ci diceva suo papà), le scarpe bucate e i tacchetti sbagliati (proprio per quelli non s’intese col ct Vicini), le panchine mal digerite (col ct Bearzot dispiaciut­o). Il rispetto per i campioni del passato, come Sansone o Pivatelli.

Eraldo e i suoi terzini, Roversi a destre e di destra, Fedele a sinistra e di sinistra. Nel mare rossoblù gli indimentic­abili Bortolotti, Ulisse e Gianni Aldrovandi e il dottor Dalmastri, importanti come dei giocatori. Imperdibil­e il dialogo fra Pesaola e Massimelli, «Si sieda Massimelli», «Grazie, mister», «Si trova bene a Bologna?», «Molto, mister», etc. Pagine intere sul Petisso, i ritratti dei suoi compagni (Cresci che andava a puntare i cavalli per il mister quando la squadra andava al cinema), dei suoi allenatori, del presidente Conti, «una sera non lo fecero entrare al night la Fontanina perché era riservata al ministro De Michelis, il giorno dopo se la comprò», e dei giornalist­i dell’epoca.

Un po’ di Toro, di Napoli e di Maradona, il silenzio assoluto dello stadio di Baires prima che parlasse Videla, il senso di colpa per non aver capito bene cosa stesse succedendo in Argentina. Mai una banalità, mai un pallone in tribuna. Ovvero quando il calcio è una cosa meraviglio­sa.

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