«L’ho accolta in cooperativa: è cambiata»
Don Nicolini l’aveva accolta in parrocchia
Don Giovanni Nicolini, il sacerdote bolognese che accolse Annamaria Franzoni a lavorare in una cooperativa sociale quando fu ammessa al lavoro esterno al carcere si dice «molto contento» della fine della sua detenzione. «Ha saputo vivere bene il suo percorso», racconta. Fondamentale sarebbe stata la famiglia, brava a non farle mai sentire «il senso dell’abbandono» e importante adesso nel reinserimento.
Quando ad Annamaria Franzoni fu concesso di lavorare fuori dal carcere, ad accoglierla c’era Don Giovanni Nicolini, prete che da anni si spende nel recupero dei detenuti e da sempre al fianco degli ultimi. La prese con sé nella parrocchia di Sant’Antonio da Padova, dove fu impiegata in una cooperativa sociale. La notizia della libertà di Annamaria, ieri, gli ha illuminato la giornata.
«Che dire? Sono molto contento, anche perché quest’ultima disposizione restituisce la persona alla pienezza di donna, madre, moglie. Corrisponde alla dignità con cui Annamaria ha vissuto la vicenda: mai con aggressività, sempre con grande compostezza».
La detenzione domiciliare è finita. Ora torna alla libertà.
«La sua è una vicenda esemplare».
In che senso?
«La colpa, la pena e la carcerazione spesso non portano corrispondenza con il testo costituzionale. Trasferire le persone alla vita più vera: così dovrebbe sempre essere. Tante volte invece le persone escono dal carcere molto ferite e trovano fuori una situazione addirittura peggiore rispetto a quella che avevano in cella».
Il punto sono le relazioni, giusto?
«Spesso i rapporti precedenti alla carcerazione si logorano e rovinano. Questa amica invece è stata aiutata e ha saputo vivere bene il suo percorso. Io ne sono davvero molto felice».
Non lavorava più nel laboratorio di sartoria?
«No, ha ricostruito interamente la sua vita».
Da quanto tempo non la vede?
«Un po’ di tempo. Ma l’ho sempre tenuta presente nelle mie preghiere».
Sono state foriere di buone notizie.
«È giusto che sia rientrata definitivamente nel suo mondo, nella sua vita reale, nella sua famiglia».
La sua famiglia le è stata strettissima, intorno. Fin da subito e sempre.
«La sua famiglia è stata in grado di non farle avvertire l’abbandono. Il senso di abbandono è uno dei punti chiave nella ripresa o meno di un detenuto».
E lei non si è mai sentita abbandonata?
«Io non l’ho mai sentita come una persona isolata».
La famiglia sarà importante anche adesso.
«Quando c’è un rapporto come il loro, così forte e affettuoso, il reinserimento è più facile. La sua è una situazione che ha dei privilegi».
A quali privilegi si riferisce?
«Nella sua storia ci sono risorse affettive e culturali importanti che non possiedono tanti e che l’hanno aiutata e la aiuteranno in futuro».
Ha mai parlato con voi di quello che è accaduto e della sua situazione?
«No, ma è anche vero che noi normalmente evitiamo con tutti di evocare quelle dolorose vicende».
Se dovesse definire la donna che ha conosciuto lei, cioè la «sua» Annamaria?
«Direi che è una figura positiva».
E cosa si augura per lei, adesso?
«Che tutto si normalizzi. Ha bisogno di non essere speciale».
C’è una lezione da imparare in questa storia?
«Che anche aspetti drammatici dell’esistenza possono essere affrontati con umanità, laicamente evangelica, e che le persone hanno un’enorme possibilità di recupero».