UN SALTO NECESSARIO PER TUTTI
La rinuncia delle mamme al lavoro rappresenta un ben noto problema sociale, che oggi si carica di valenze ancora più allarmanti a fronte della congiuntura economica che stiamo attraversando. Il primo dato con cui confrontarci è che anche nella civilissima e sorvegliatissima Emilia-Romagna, da sempre ai vertici dell’offerta per i servizi alla prima infanzia, nel 2018 le dimissioni della mamme, che si sono licenziate nell’impossibilità di conciliare figli e lavoro, è ancora cresciuta, attestandosi su un preoccupante +23%. E non consola sapere che le cose vanno peggio in Lombardia e in Veneto. Ma questo valore numerico, che di per sé basterebbe a far suonare numerosi e sonori campanelli d’allarme, assume ancora più significato sullo sfondo di una società in cui il lavoro fisso non è una realtà condivisa quanto si vorrebbe e, anzi, costituisce un obiettivo che per molti tarda ad arrivare. Che persone intestatarie di un regolare contratto di lavoro a tempo indeterminato decidano di mollare, sapendo che trovarne un altro si rivelerà operazione tutt’altro che agevole, la dice lunga sul disagio della maternità. Come stupirsi poi di fronte alle notizie sulla denatalità, che incombono sul futuro del nostro Paese? Il fenomeno disegna il ritratto di una Italia nella quale gli individui si ritrovano sempre più soli di fronte agli appuntamenti della vita, mentre il welfare continua a essere insufficiente.
Tramontate le famiglie allargate, con nonni pronti ad accudire i nipoti, le neo–mamme si ritrovano tra le Scilla e le Cariddi delle baby– sitter e degli asili. Ma a fronte dei costi inarrivabili dell’assistenza privata a pagamento e dell’esaurirsi dei posti negli asili nido pubblici, cosa resta da fare a chi percepisce uno stipendio che in molti casi non riesce neppure a coprire le spese richieste dalla cura del bambino? Parlare di alternativa è evidentemente ridicolo: siamo in presenza di licenziamenti, che costituiscono delle scelte obbligate, con le conseguenze che è facile immaginare: in prima battuta economiche, ma subito dopo anche psicologiche, visto che il lavoro contribuisce all’ auto realizzazione individuale e sociale. Purtroppo
tutte le altre opzioni non aiutano. Infatti i nidi aziendali restano esperienze minoritarie, i permessi per allattamento e le richieste di lavoro part–time non incontrano — per usare un eufemismo — il favore delle aziende e i congedi di paternità sono estremamente risicati e non risolvono in alcun modo la situazione.
La legislazione deve compiere ancora molti passi in avanti, ma forse ancora più cammino deve compiere la società. Non si uscirà da queste more fino a che non passeranno due principi fondamentali. Il primo è che la procreazione costituisce un’azione fondamentale per la sopravvivenza di una società e di una cultura. Il secondo è che il figlio non nasce alla madre, ma alla coppia.