La mostra del Pulitzer Lorenzo Tugnoli
La fotografia è una passione che lo accompagna da sempre, ma l’idea di renderla oggetto della sua professione è nata mentre studiava Fisica all’università di Bologna: «Nei primi anni del Duemila ho iniziato a fotografare le diverse manifestazioni politicosociali, a partire dal movimento no-global. Quindi un viaggio in Messico, nell’ambito di un rapporto di aiuto tra i centri sociali bolognesi e le comunità zapatiste messicane e da qui la decisione, cui sono seguiti anni di lavoro in alcune delle zone più difficili e contraddittorie del pianeta».
A raccontarlo è il premio Pulitzer 2019 per la fotografia Lorenzo Tugnoli (Lugo, Ravenna, 1979), vincitore nel 2019 anche del World Press Photo, che il 17 settembre alle 21 al teatro sociale di Ravenna alle 21 sarà protagonista della serata «Essere umano». Venerdì 13 a Lugo, paese natale di Tugnoli, verrà inaugurata l’esposizione «Come in cielo così in terra» (visitabile fino all’11 ottobre alle Pescherie della Rocca di Lugo). La mostra mette a confronto le opere di tre fotografi: oltre a Tugnoli, Melissa Arras e Alex Ward, fotografi inglesi impegnati a documentare la situazione dei rifugiati nelle zone più calde del Pianeta. Le opere di Tugnoli nell’esposizione occupano il pannello 3 e testimoniano il suo lavoro sulla Libia, che comprende foto scattate tra il 2015 e il 2019.
Tugnoli, cosa significa per lei costruire una rappresentazione di un determinato momento storico attraverso le immagini?
«È una domanda che porta al cuore del mio lavoro. Il mio approccio si basa sul rimanere a lungo nei luoghi che fotografo, per cercare di cogliere, giorno per giorno, non solo momenti tragici, d’azione, drammatici, ma anche di vita quotidiana. Sono aspetti che ritengo molto importanti perché una foto possa dare una visione umana delle persone che vivono in
quei luoghi, per presentarle non come vittime, ma costruire anche un livello di empatia. Questo sarà anche il senso della mostra di Trento, le cui immagini riguardano Afghanistan, Yemen, Libano e Palestina».
I suoi reportage trasmettono la vicinanza alle persone ritratte. Come contempera le esigenze del suo lavoro con quella etica del rispetto di persone e luoghi?
«Ciò che accomuna i miei lavori è il racconto dell’attualità che diventa storia, le mie immagini narrano pezzi di storia dei Paesi che fotografo, attraverso la cristallizzazione di alcuni momenti. Molto poi dipende dal tempo a disposizione. Ho abitato cinque anni in Afghanistan e ora sono da quattro in Libano, dove spesso fotografo persone che conosco e ho già fotografato. In questi casi è più
semplice trasmettere la realtà della loro vita, ma è interessante anche la diversa prospettiva del lavoro realizzato nello Yemen per il Washington Post, un Paese in cui, a causa della situazione politica, non è possibile vivere».
Per cosa si caratterizza il suo servizio sullo Yemen?
«Abbiamo attraversato questo Paese per più di due mesi, facendo i conti con diverse difficoltà, principalmente quelle di raggiungere alcuni luoghi e di stabilire rapporti con le persone, oltre a problemi di sicurezza. Credo possa non essere facile fare lavori “in assegnato” che abbiano risonanza con il nostro cuore, ma nello Yemen tale risonanza è stata forte grazie alla grande determinazione del Washington Post
di coprire bene questa storia. Non succede spesso nel panorama del giornalismo internazionale».
Guardando al futuro?
«I temi che ho sviluppato in questi dieci anni di fotografia mi hanno permesso l’accesso a grandi giornali, e grazie al Pulitzer avrò ora la possibilità di continuare. In questi giorni mi trovo al festival di fotogiornalismo di Perpignan, nel sud della Francia, uno dei più importanti al mondo. Qui incontro tanti giovani che stanno iniziando, e a loro voglio dire che c’è ancora spazio per i lavori ben fatti. Dopo Trento partirò per la Libia, luogo che ho fotografato molto negli anni, soprattutto in relazione ai migranti, ed entro fine anno tornerò nello Yemen, se riesco a risolvere i problemi con i permessi».