I COGNOMI DEI NOSTRI RAGAZZI
Francamente non so se i ragazzi facciano più caso ai cognomi. A scuola e non. Se ne disinteressano, una volta superata la curiosità o la diffidenza iniziale per compagni con costumi e mentalità differenti. Badano ad altro, soppesano ambiti e situazioni diverse. Probabilmente l’outfit, i modi di dire o fare, badano i tatuaggi, ma ai cognomi, direi, proprio di no. Globalizzati lo sono eccome, tuttavia sembrano avere maggiormente presente che cosa significhino la diversità al pari della molteplicità. A differenza degli adulti, cioè i grandi con le prosopopee, le influenze, gli stereotipi, i pregiudizi. Durissimi a morire. Ferrei. Ben venga questa punturina fastidiosa alle ipocrisie, alle circonvoluzioni intellettuali, al detto, non detto, contraddetto della «co-identità» delle classi miste.
Trasversalissima e affollatissima applicazione, fra il perentorio e il fobico, della celeberrima «sindrome Nimby», nel caso specifico, non al giardino, casa, quartiere, ma alla classe del figlio o dei figli. Espressioni abominevoli come «zona franca», «non fai testo perché abiti…», «fortunatamente nella classe di» testimoniano la grande rimozione, il retroscena dietro il palco dell’universalismo dell’erogazione del servizio scolastico, indipendentemente, da valori, sapori colori, afflati, timori.
A nche
in piena globalizzazione, la strutturazione e organizzazione rimarca, se non proprio demarca, la decisione di un genitore di origine marocchina di ritirare il proprio figlio dalla scuola materna, perché son tutti stranieri. Il Comune lo esorta a rimeditare sulla sua scelta, per così dire, dell’ «altro mondo». Una garbata riflessione, senza bisogno di scomodare i massimi sistemi, approderebbe alla constatazione che non è più tempo di etichette e identità stereotipate cui aggrapparsi, quasi fosse «la coperta di Linus». La centralità o meno di un cognome degli allievi di una classe non serve a nulla che sia reclamato etnicamente. Più che saperlo, i nostri figli lo sperimentano sul campo, ogni secondo della loro quotidianità. Stanno in mezzo al flusso delle cose del mondo, dove, in tutta onestà, il cognome incide poco o nulla. Nessuno nega che il tema sia spinoso, in termini funzionali e politici: sulle identità si vince o si perde più di un’elezione. In una classe, poi, la complessità aumenta a dismisura: entusiasmi, delusioni, noia, attriti, solidarietà repentine. Di ragazzi e fra ragazzi in classi che saranno sempre più miste e tali dovrebbero essere. Antidoto quotidiano ai vezzi ideologici degli adulti, ai tic teorici, alle distorsioni del senso profondo dei rapporti interpersonali. Una classe, qualsiasi classe non deve trasformarsi in una «questione di classe», tantomeno in un fortino delle identità. Dall’asilo all’università, sino a prova contraria, sempre e solo classi miste, dallo sguardo non condizionato: «A scuola si va per ascoltare il maestro. Tirar su figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso». Da un passo di don Lorenzo Milani. Uno a caso, ma non per caso.