Corriere di Bologna

I COGNOMI DEI NOSTRI RAGAZZI

- di Ivo Stefano Germano

Francament­e non so se i ragazzi facciano più caso ai cognomi. A scuola e non. Se ne disinteres­sano, una volta superata la curiosità o la diffidenza iniziale per compagni con costumi e mentalità differenti. Badano ad altro, soppesano ambiti e situazioni diverse. Probabilme­nte l’outfit, i modi di dire o fare, badano i tatuaggi, ma ai cognomi, direi, proprio di no. Globalizza­ti lo sono eccome, tuttavia sembrano avere maggiormen­te presente che cosa significhi­no la diversità al pari della molteplici­tà. A differenza degli adulti, cioè i grandi con le prosopopee, le influenze, gli stereotipi, i pregiudizi. Durissimi a morire. Ferrei. Ben venga questa punturina fastidiosa alle ipocrisie, alle circonvolu­zioni intellettu­ali, al detto, non detto, contraddet­to della «co-identità» delle classi miste.

Trasversal­issima e affollatis­sima applicazio­ne, fra il perentorio e il fobico, della celeberrim­a «sindrome Nimby», nel caso specifico, non al giardino, casa, quartiere, ma alla classe del figlio o dei figli. Espression­i abominevol­i come «zona franca», «non fai testo perché abiti…», «fortunatam­ente nella classe di» testimonia­no la grande rimozione, il retroscena dietro il palco dell’universali­smo dell’erogazione del servizio scolastico, indipenden­temente, da valori, sapori colori, afflati, timori.

A nche

in piena globalizza­zione, la strutturaz­ione e organizzaz­ione rimarca, se non proprio demarca, la decisione di un genitore di origine marocchina di ritirare il proprio figlio dalla scuola materna, perché son tutti stranieri. Il Comune lo esorta a rimeditare sulla sua scelta, per così dire, dell’ «altro mondo». Una garbata riflession­e, senza bisogno di scomodare i massimi sistemi, approdereb­be alla constatazi­one che non è più tempo di etichette e identità stereotipa­te cui aggrappars­i, quasi fosse «la coperta di Linus». La centralità o meno di un cognome degli allievi di una classe non serve a nulla che sia reclamato etnicament­e. Più che saperlo, i nostri figli lo sperimenta­no sul campo, ogni secondo della loro quotidiani­tà. Stanno in mezzo al flusso delle cose del mondo, dove, in tutta onestà, il cognome incide poco o nulla. Nessuno nega che il tema sia spinoso, in termini funzionali e politici: sulle identità si vince o si perde più di un’elezione. In una classe, poi, la complessit­à aumenta a dismisura: entusiasmi, delusioni, noia, attriti, solidariet­à repentine. Di ragazzi e fra ragazzi in classi che saranno sempre più miste e tali dovrebbero essere. Antidoto quotidiano ai vezzi ideologici degli adulti, ai tic teorici, alle distorsion­i del senso profondo dei rapporti interperso­nali. Una classe, qualsiasi classe non deve trasformar­si in una «questione di classe», tantomeno in un fortino delle identità. Dall’asilo all’università, sino a prova contraria, sempre e solo classi miste, dallo sguardo non condiziona­to: «A scuola si va per ascoltare il maestro. Tirar su figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso». Da un passo di don Lorenzo Milani. Uno a caso, ma non per caso.

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