L’IDENTITÀ GLOBALE DELLA CITTÀ
L’ingorgo urbano di questo fine settimana avvisa che il problema di Bologna non è soltanto «la questione delle abitazioni» che i turisti soffiano agli studenti; o la costruzione delle infrastrutture che la connettono con l’esterno; ma è qualcosa di ben più generale e radicale, che riguarda l’idea che la nostra città ha di se stessa, e di conseguenza la strategia che essa riesce a mettere in campo. Se vi riesce. L’elenco delle manifestazioni che negli ultimi tre giorni hanno eletto il teatro bolognese come scena basterebbe da solo a occupare questa intera colonna: dall’insediamento del Villaggio Coldiretti (che ha espulso anzi sospeso la tradizionale Piazzola) al Festival francescano, dal corteo per salvare il clima terrestre alla Notte europea dei ricercatori, per tacere del Cersaie in Fiera o della Bologna Design Week o di Bologna Sì Sposa. Si potrebbe continuare, e la lista è volutamente casuale proprio a segno della varietà e della diversa natura degli stimoli, e dell’ampiezza delle scale, alla base del carico cui la struttura urbana è sottoposta: dalla mobilitazione politica di carattere planetario all’iniziativa privata di settore d’interesse internazionale, dal raduno a scala continentale alla riunione di un ordine spirituale, o di una categoria nazionale. Tale concomitante occupazione di suolo pubblico e privato ha scatenato discussioni e conflitti (ancora da comporre).
Essi non si riferiscono soltanto ai soggetti direttamente interessati, ma investono anche le competenze e le responsabilità di chi è chiamato a decidere, ciascuno all’interno del proprio ambito, dell’agibilità urbana complessiva. Per un verso si tratta, come tutti i processi di crescita, di un fenomeno positivo: in virtù della propria natura, e della propria immagine, Bologna si configura, non da oggi, come una quinta prestigiosa per qualsiasi iniziativa, a qualsiasi livello. E questo può fare soltanto piacere. Ma la settimana che termina ha segnato, con il corteo per il clima, la definitiva inclusione della nostra città nel circuito dei movimenti globali di massa.
Si tratta di un dato su cui è urgente riflettere, perché Piazza Verdi è ancora lì. E Piazza Verdi c’entra, perché essa è il risultato dello scacco dell’organismo urbano bolognese di fronte a una mutazione di scala analoga a quella in questi giorni in atto, è l’effetto di un mancato salto di livello della funzione civica, anzi politica, della nostra città affine a quello di cui oggi vi sarebbe urgente bisogno. Allora, all’inizio della seconda metà degli anni Settanta del Novecento, la domanda era europea, e concerneva la capacità di Bologna (e della sua università) di continuare ad assolvere il proprio ruolo storico di metabolizzazione e rimessa in circolazione di sapere critico. Come si sa, fu gara dura e persa. E l’incrocio di via Zamboni mostra ancora i segni della sconfitta, tanto più duraturi perché incompresi, in fondo, nella loro genesi, nella loro natura e nella loro portata. Oggi il contesto è invece globale, la domanda che si rivolge a Bologna si declina in tanti altri modi oltre quello relativo al sapere, e le aspettative sono cresciute. Ma la soglia da varcare resta la stessa: quella di una città in grado di trarre partito dalla perturbazione per rinchiudersi in maniera diversa su se stessa, generando al contempo nuovi ruoli e attività in grado di mantenere e rinvigorire la natura originaria del proprio funzionamento. Chi vuole può anche chiamarla identità, mai però dimenticando che si tratta non di una cosa data una volta per tutte, ma di un continuo, dinamico e inesauribile processo.