Agnello Hornby racconti in musica
La scrittrice-avvocato: «Brani e suoni in un dialogo continuo, a due»
La violenza familiare va in scena questa sera al LabOratorio San Filippo Neri (ore 20.30, ingresso libero). Simonetta Agnello Hornby vive tra Londra e la Sicilia. Scrittrice di romanzi avvolgenti come La mennulara o Caffè amaro, con la vocalist jazz e regista teatrale Filomena Campus con «Credevo che (o della violenza domestica)» racconta di abusi, forte della propria esperienza di avvocato che in Inghilterra si è battuta per trent’anni per i diritti dei più piccoli e in difesa dei più deboli. La serata fa parte della rassegna «Libri in scena» ed è organizzata con la casa editrice Feltrinelli, che ha pubblicato la maggior parte dei libri dell’autrice.
Quali casi di violenza domestica racconterà?
«In realtà ora in Inghilterra non si parla più solo di “violenza” ma di “abusi”. La violenza è fisica, è uno schiaffo, sono le percosse, l’abuso può essere anche psicologico, e forse è la maggiore forma di attacco alla personalità dell’altro. L’abuso può avvenire nella coppia, sui minori, sulle donne, ma anche sugli uomini. Io ragionerò su sette o otto casi di cui mi sono occupata. Filomena Campus ricorderà la violenza contro Franca Rame e il caso di un uomo vittima di abuso».
Come ha affrontato questi fatti nella sua carriera professionale?
«Facevo l’avvocato dei minori a Brixton, che allora era un posto povero di Londra. Ora è diventato alla moda. Ebbi l’idea di dedicare una sezione dello studio ai casi di violenza domestica. Arrivavano in continuazione donne con occhi neri per le botte e con il corpo pestato».
Fu facile organizzare questa sezione?
«Mettemmo, come si usa fare in Inghilterra, un annuncio sui giornali per trovare un avvocato che si assumesse l’incarico. Si presentò un uomo, era molto bravo e fu preso. Fummo molto criticate dalle femministe. Facemmo notare che in alternativa avremmo dovuto aspettare ogni volta che una di noi si liberasse, ma nei casi di violenza la tempestività è fondamentale».
Come andò a finire?
«L’uomo insegnò a tutto lo studio il mestiere: per cui non ci fu più solo un ufficio dedicato, ma un lavoro corale, veloce, come era necessario…».
Perché la velocità?
«Perché è essenziale, in casi di violenza, dare una casa alla vittima, convincere le autorità a tenere lontano l’abusante contro cui esiste un ordine del tribunale, collaborare con gli uffici giudiziari, anche per ottenere qualche velocizzazione di pratiche delicate. E qui abbiamo visto quanto la gente sia buona, disposta, per esempio, a farci passare avanti, con la consapevolezza dell’urgenza».
Quali casi racconterà?
«Casi di tutti i tipi: bambini che assistono a liti furibonde e hanno paura di diventare come papà e mamma, donne che tornano dall’abusante, abusanti che a loro volta hanno subito, in passato abusi, come avviene nella maggior parte dei casi».
E gli uomini?
«Ricorderò il caso di un uomo potente, di una certa stazza, che sotto i vestiti ci fece vedere ferite di tacchi a stiletto, inferte da una donna ben più piccola».
Casi storici?
«Parlerò di Franca Viola: negli anni 60, nella mia Sicilia, rifiutò il matrimonio riparatore con l’uomo, il mafiosetto, che l’aveva violentata, fu disprezzata dal paese ma andò a testa alta e contribuì a innescare quel processo che ha portato a cambiare le leggi. Ogni brano sarà intervallato e seguito da musiche, in un dialogo continuo con Filomena Campus».
Riferirà casi bolognesi?
«Narrerò un fatto molto triste, che mi ha toccato particolarmente. Crediamo che la violenza domestica avvenga tra giovani o abbia per protagonisti stranieri. Qui si tratta di appartenenti alla classe media. Lei era figlia, quasi quarantenne, di professionisti. Fu uccisa dal fidanzato, fatta a pezzi e messa nel freezer nel 2013. Lui fu condannato a 30 anni. Lei la conoscevo. Era figlia di una cugina di mia mamma: anni fa era venuta, come molti giovani, ospite da me a Londra per studiare inglese. Me la ricordo bene: delicata, gentile, voleva perfino pagarmi le telefonate fatte alla famiglia. Educatissima, intelligente, debole. Non avrei mai pensato a quella fine. Rimase orfana, quell’uomo deve essersi insinuato nelle sue debolezze. Non la sentivo da tempo, forse avrei dovuto mettermi in contatto con lei, dopo la morte dei genitori. Questa storia insegna che la violenza non è questione di classe».
Ha appena pubblicato con Mondadori un libro, Siamo Palermo, scritto con Mimmo Cuticchio, puparo figlio d’arte. Come è nato questo connubio?
«Ogni tanto uno scrittore deve divertirsi. Ho conosciuto Cuticchio in un viaggio di una delegazione di artisti e intellettuali a Roma, col sindaco Orlando, per sostenere la causa, poi persa, di candidare Palermo a Capitale europea della cultura. C’era solo un’altra donna, lui stava un po’ discosto e abbiamo fatto amicizia».
Il libro?
«Passeggiamo per Palermo insieme, la raccontiamo, poi ognuno affonda nelle proprie memorie. È un atto di amore, che non evita la denuncia di quello che non funziona, che non è stato fatto».
Prossimi romanzi?
«Il seguito, in due libri, di Caffè amaro.
Ma tra due anni. Ho lavorato molto, sono stanca: l’anno prossimo non uscirà nulla».
” A Bologna Narrerò un fatto che mi ha toccato particolarmente. Nel 2013 una donna, figlia di una mia cugina, fu uccisa dal fidanzato e nascosta nel freezer