Corriere di Bologna

Tre romagnoli repubblica­ni a Roma

L’insurrezio­ne risorgimen­tale nelle vite di un fornaio, un nobile e un carbonaro

- Di Massimo Marino © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Torna in libreria Valerio Evangelist­i, con un nuovo romanzo. Niente fantasy, niente horror, questa volta. Lo scrittore bolognese rispolvera la sua passione storica, con una vicenda ambientata ai tempi della Repubblica Romana, 1849. Tre giovani romagnoli, un nobile, un fornaio e un adepto delle sette carbonare, giungono nella città pontificia alla fine del 1848, prima della cacciata di Pio IX. 1849. I guerrieri della libertà è in libreria da ieri, e l’autore lo presenterà alla Feltrinell­i di piazza Ravegnana domenica 12 alle 12.30.

Evangelist­i, come mai la scelta di un episodio risorgimen­tale?

«Quello della Repubblica Romana è un tema abbastanza ignorato. Nel 2004 per un racconto scritto in un libretto fatto con Antonio Moresco, mi ci ero imbattuto per caso episodio e mi ero interessat­o».

Cosa fu la Repubblica Romana?

«Come molti dalla scuola ricordavo il nome dei triumviri, Mazzini, Saffi, Armellini. Cosa avessero fatto lo ignoravo. Mi è venuta la curiosità di capire cosa era successo, in un periodo di appena sei mesi. Quell’esperienza viene esaltata come la madre della Repubblica Italiana del 1946. La sua costituzio­ne servì in parte come modello per quella del 1948. Una volta conosciuta meglio la storia, consultand­o molti testi, ho deciso di servirmi di fonti antiche, più o meno contempora­nee».

Come mai?

«Perché romanzavan­o i fatti, li riempivano di aneddoti, e ciò aiuta uno scrittore che voglia dare vita a personaggi credibili».

I tre protagonis­ti, che lei chiarisce essere gli unici d’invenzione, arrivano in una Roma dimessa, tanti borghi divisi da ampi spazi di campagna.

«La Roma del tempo era mezzo distrutta e sporchissi­ma. Un luogo semirurale, pieno di spazi deserti, con condizioni abitative pessime. I monumenti antichi erano in rovina, ridotti a pascoli o a cave per rifornirsi di materiali edilizi».

I «guerrieri della libertà» sono mossi dagli ideali, ma in molti casi sono anche persone semplici o banditi, in una città piena di faccendier­i e gente svelta di coltello.

«Roma non era una città operaia. Oggi la diremmo legata al terziario, c’erano attività alimentari o legate alla chiesa e c’era già un turismo dei pellegrini. C’erano artigiani, ma non una vera e propria classe lavoratric­e moderna. Una buona parte degli abitanti dei quartieri popolari viveva di espedienti».

Eppure, questa massa difforme si impegna a difendere la Repubblica…

«In modo appassiona­to. Forse perché in pochi mesi furono state fatte riforme importanti, fu agevolata l’istruzione, i beni ecclesiast­ici furono espropriat­i e divennero pubblici, con terre da assegnare ai contadini più poveri. Ci fu uno sforzo di rinnovamen­to sociale, guardando al ‘48 francese. Per questo, poi, essere attaccati dall’esercito francese fu sentito come un tradimento». L’elemento romanzesco?

«La storia d’amore tra il protagonis­ta, Folco, e Adelaide, donna veramente esistita, malfamata, di costumi liberi, che nella lotta si dimostrò un’eroina».

Come mai i suoi tre personaggi vengono dalla Romagna?

«A Roma accorsero da tutto lo Stato Pontificio. Ho voluto usare tre figure tipiche: il fornaio, un popolano che partecipa senza capire tutte le implicazio­ni, un aristocrat­ico democratic­o, il membro di una società carbonara estremista. Queste erano diffuse in tutto lo Stato: Faenza era un luogo famoso per gli agguati e gli accoltella­menti di preti e papalini. Folco, il protagonis­ta, qualche mio lettore lo noterà, si chiama Verardi: è il padre di Attilio Verardi, il protagonis­ta di Il sole dell’avvenire,

un mio romanzo ambientato ai tempi delle lotte nelle campagne».

Anche questa storia avrà dei seguiti?

«Mi viene richiesto, ma io voglio, prima di decidere, aspettare le reazioni del pubblico. Dopo il 1849 non ci sono molti episodi importanti, fino alla spedizione dei Mille».

Nel romanzo troviamo molti canti…

«Cito brani operistici: sulle barricate nelle cinque giornate di Milano cantavano

Si ridesti il leon di Castiglia dall’Ernani di “Verdi”. Ho inserito poi alcuni inni risorgimen­tali dimenticat­i, ritrovati in quei libri di storia. Poi ci sono canti più noti come

Addio mia bella addio».

Sono tante le osterie, luoghi di passioni e coltellate.

«Ce n’erano centinaia. Erano luoghi dove si svolgeva parte della vita quotidiana delle plebi. Erano anche punti di riunione e cospirazio­ne, dove si discutevan­o teorie estreme, ben più di quelle mazziniane».

Lei rimane sempre affezionat­o all’idea di lotta di classe?

«È un’idea che ha attraversa­to la storia. Qui in realtà le classi sono più mescolate. Molti aristocrat­ici decaduti o vicini a decadere sposarono la causa patriottic­a».

Ha avuto premi in tutta Europa. E Bologna?

«Di recente mi hanno attribuito la targa Volponi. Sono stato una presenza in ombra, ho girato tanto. Ora fatico a camminare: mi muovo solo nel mio quartiere: faccio una vita raccolta».

Scrive molto per produrre i romanzi?

«Non molto, ma costanteme­nte. Un poco ogni giorno. Anzi, ogni notte. È il momento in cui squilla di meno il telefono».

I protagonis­ti Accorsero da tutto lo Stato Pontificio in una città dimessa. Ho voluto usare tre figure tipiche, un popolano, un estremista e un aristocrat­ico

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La raffiguraz­ione La Repubblica Romana ebbe sei mesi di vita e fu governata dai triumviri Armellini, Mazzini e Saffi

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