Corriere di Bologna

UNA CITTÀ DEL CIBO SOSTENIBIL­E

- Di Franco Farinelli

Si può anche ammettere, pur senza concedere, che i principi e le pratiche ispirati alla sostenibil­ità siano in grado di porre riparo, alla lunga, alla crisi ambientale e a quella climatica, e di salvare il destino dell’umanità. Gara dura ma plausibile. E si può anche accettare la logica del marketing, con la sua evidente enfasi sulla comunicazi­one, cui appare ispirata anche la quarta edizione, che oggi culmina, dell’internazio­nale Bologna Award dedicato al cibo e, appunto, alla sostenibil­ità agroalimen­tare: evento promosso dal Caab e dalla Fondazione Fico, appoggiato dalla Camera di Commercio, dalla Regione, dal Comune e dalla Città metropolit­ana, con la partnershi­p della Fao e il patrocinio dell’Università. Ma proprio sotto tal profilo s’intravvede una contraddiz­ione i cui effetti potrebbero a breve risultare deleteri per Bologna, se non corretti in tempo. Una contraddiz­ione metaforica­mente rappresent­ata dalla materiale distanza tra la Fabbrica Italiana Contadina (Fico) e il centro della nostra città. Espressa nel gergo dei tecnici, la contraddiz­ione in questione dipende dalla differenza tra il contenuto di senso (altrimenti detto esperienzi­ale, cioè il perché) e la funzione, cioè il cosa, e si riferisce al fatto che il mercato non va in cerca di semplici prodotti, ma di offerte ricche di significat­o.

Per apprezzare tale differenza, e uscire dall’astratto, basta poco.

Èsufficien­te comparare quel che a Bologna (ma anche a Fico) è possibile mangiare con le dodici raccomanda­zioni stabilite dalle Nazioni Unite per un’alimentazi­one sostenibil­e e sana. Si vedrà che i punti di contatto, a essere garbati, sono molto pochi. E inevitabil­mente si finirà con il chiedersi la ragione per cui i turisti dovrebbero arrivare a Bologna (appunto Città del Cibo che, almeno per il momento, tutti intendono bolognese) per alimentars­i secondo le prescrizio­ni emanate dalla Fao, volte alla difesa di un regime alimentare in grado di perpetuars­i all’infinito senza compromett­ere la vita di chi verrà dopo di noi. Dunque basato su logiche e livelli di consumo molto diversi, sul piano globale, da quelli che oggi sono i nostri. In altri termini: si annuncia una opposizion­e struttural­e tra il cibo che Bologna offre, e che i turisti chiedono, e il cibo che Bologna dovrebbe offrire per essere coerente con il fondamento del discorso che essa stessa produce. Si tratta di una variante di quella che gli economisti più illuminati definiscon­o come «epidemia narrativa» e che segnala appunto il divario tra la realtà e le versioni, più o meno consapevol­i oppure strumental­i, che di volta in volta se ne forniscono. A meno che (e dev’essere questa la speranza di tutti) tale divaricazi­one non vada intesa come il segnale dell’avvio di un processo politico nel senso letterale del termine, di una progressiv­a riduzione dell’intervallo tra pratica ambientale e narrazione urbana che investa la nostra città nella sua totalità. E ciò sull’esempio di quanto in campo internazio­nale già accade in seno al cosiddetto C40, il novero di organismi cittadini impegnati, in seguito agli accordi di Parigi del 2015, nella trasformaz­ione dei sistemi alimentari urbani, riconosciu­ti come componenti centrali delle strategie con cui le città fanno fronte, limitando le emissioni, alla crisi climatica. Proprio lo stesso intento del Patto di Milano lanciato in contempora­nea durante l’Expo e che oggi raduna più di 200 città in tutto il mondo. Il prossimo passo dunque, per uscire dalla contraddiz­ione, dovrà essere quello verso una Bologna non più soltanto città del cibo ma del cibo e del clima — e sarebbe davvero strano se così non fosse, date le recenti responsabi­lità che alla nostra città l’Europa ha confidato nel campo degli studi climatici. E comunque vada, non ci si illuda: stavolta non sarà possibile cambiare tutto per non cambiare niente.

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