UNA CITTÀ DEL CIBO SOSTENIBILE
Si può anche ammettere, pur senza concedere, che i principi e le pratiche ispirati alla sostenibilità siano in grado di porre riparo, alla lunga, alla crisi ambientale e a quella climatica, e di salvare il destino dell’umanità. Gara dura ma plausibile. E si può anche accettare la logica del marketing, con la sua evidente enfasi sulla comunicazione, cui appare ispirata anche la quarta edizione, che oggi culmina, dell’internazionale Bologna Award dedicato al cibo e, appunto, alla sostenibilità agroalimentare: evento promosso dal Caab e dalla Fondazione Fico, appoggiato dalla Camera di Commercio, dalla Regione, dal Comune e dalla Città metropolitana, con la partnership della Fao e il patrocinio dell’Università. Ma proprio sotto tal profilo s’intravvede una contraddizione i cui effetti potrebbero a breve risultare deleteri per Bologna, se non corretti in tempo. Una contraddizione metaforicamente rappresentata dalla materiale distanza tra la Fabbrica Italiana Contadina (Fico) e il centro della nostra città. Espressa nel gergo dei tecnici, la contraddizione in questione dipende dalla differenza tra il contenuto di senso (altrimenti detto esperienziale, cioè il perché) e la funzione, cioè il cosa, e si riferisce al fatto che il mercato non va in cerca di semplici prodotti, ma di offerte ricche di significato.
Per apprezzare tale differenza, e uscire dall’astratto, basta poco.
Èsufficiente comparare quel che a Bologna (ma anche a Fico) è possibile mangiare con le dodici raccomandazioni stabilite dalle Nazioni Unite per un’alimentazione sostenibile e sana. Si vedrà che i punti di contatto, a essere garbati, sono molto pochi. E inevitabilmente si finirà con il chiedersi la ragione per cui i turisti dovrebbero arrivare a Bologna (appunto Città del Cibo che, almeno per il momento, tutti intendono bolognese) per alimentarsi secondo le prescrizioni emanate dalla Fao, volte alla difesa di un regime alimentare in grado di perpetuarsi all’infinito senza compromettere la vita di chi verrà dopo di noi. Dunque basato su logiche e livelli di consumo molto diversi, sul piano globale, da quelli che oggi sono i nostri. In altri termini: si annuncia una opposizione strutturale tra il cibo che Bologna offre, e che i turisti chiedono, e il cibo che Bologna dovrebbe offrire per essere coerente con il fondamento del discorso che essa stessa produce. Si tratta di una variante di quella che gli economisti più illuminati definiscono come «epidemia narrativa» e che segnala appunto il divario tra la realtà e le versioni, più o meno consapevoli oppure strumentali, che di volta in volta se ne forniscono. A meno che (e dev’essere questa la speranza di tutti) tale divaricazione non vada intesa come il segnale dell’avvio di un processo politico nel senso letterale del termine, di una progressiva riduzione dell’intervallo tra pratica ambientale e narrazione urbana che investa la nostra città nella sua totalità. E ciò sull’esempio di quanto in campo internazionale già accade in seno al cosiddetto C40, il novero di organismi cittadini impegnati, in seguito agli accordi di Parigi del 2015, nella trasformazione dei sistemi alimentari urbani, riconosciuti come componenti centrali delle strategie con cui le città fanno fronte, limitando le emissioni, alla crisi climatica. Proprio lo stesso intento del Patto di Milano lanciato in contemporanea durante l’Expo e che oggi raduna più di 200 città in tutto il mondo. Il prossimo passo dunque, per uscire dalla contraddizione, dovrà essere quello verso una Bologna non più soltanto città del cibo ma del cibo e del clima — e sarebbe davvero strano se così non fosse, date le recenti responsabilità che alla nostra città l’Europa ha confidato nel campo degli studi climatici. E comunque vada, non ci si illuda: stavolta non sarà possibile cambiare tutto per non cambiare niente.