Orgoglio pilastrino
Mi separa dal Pilastro un cavalcavia sulla Tangenziale. Quel cavalcavia lo supero spesso, per andare in piscina, camminare nel parco, portare mio figlio al centro estivo che ama, o alla Fattoria urbana, al Dom. Lo attraverso per andare alla pizzeria «etica», alle poste, a fare la spesa. D’estate, tra il verde, ci sono pure le lucciole. Persone a me molto care, coetanee e anziane, ci abitano da anni e ne hanno vissuto la trasformazione. Qualcuno ha sentito gli spari della Uno Bianca, ha avuto i campanelli (ah, i campanelli) bruciati da chi aveva instaurato lì il suo potere meschino e non voleva essere disturbato, non metteva il naso fuori dalla porta dopo il tramonto, ha subito furti di ogni genere. Ma quel qualcuno ha resistito, ha cercato soluzioni e insieme alle istituzioni è stato protagonista di un felice cambiamento.
E ora ci vive bene, al Pilastro, porta i figli e i nipoti in una scuola dove i ragazzini parlano tante lingue e i professori di eccellenza quelle lingue le intrecciano e le rendono comprensibili. Quel qualcuno passeggia di sera, va al centro culturale, in biblioteca, incontra le tante culture e non le teme. Anche se da qualche parte resistono echi di un passato triste e pericoloso e nidificano rischi di un presente disagio. Ma l’orgoglio pilastrino non molla.
Però un modo c’è per tornare al vecchio quartiere dormitorio, ai muri scrostati, al coprifuoco, alle guerre tra bande e alle siringhe piantate sugli alberi: basta seminare la diffidenza, fomentare la paura dei «penultimi» verso gli ultimi. Ripescare e diffondere il racconto di un quartiere cattivo. Fino a ricacciarlo nell’isolamento e nel pregiudizio.
E basta poco: si comincia con un gesto scellerato, a disprezzo delle regole e del rispetto umano. Ma legittimato dal ruolo della persona che lo compie.
Basterebbe un politico con un seguito. Un senatore che, nel suo grande amore per le periferie davanti alle telecamere suonasse un campanello — nome e cognome — e facesse il bullo: «Lei spaccia?».