LA FOGLIA DI FICO DEL PD
Potrà il potere taumaturgico dell’eroe di giornata Stefano Bonaccini nascondere la crisi d’identità del Pd? La domanda è secca. Come la risposta. No.
L’eroe Bonaccini, al netto del liberatorio successo dovuto a se stesso e al complice involontario della sua vittoria - cioè Salvini, che ha sbagliato tutto - non è la risposta perché l’Emilia Romagna non è l’Italia e le risposte non dipendono dai nomi ma dalle parole.
E’ il potere (e la potenza) delle parole che costruisce l’identità, soprattutto in mancanza di un leader. Che certo serve ma deve incarnare la rappresentazione di un’idea, di un progetto, di un «racconto». Naturalmente la parole come carne della società e non certo la chiacchiera come formula dell’imbarazzo e del nascondimento. Paroleidee che devono perfino recuperare il senso di un’ideologia se le diamo il peso di una visione comune, di una scala valoriale, di una proposta che sia condivisibile da un elettorato. Una volta si chiamava partito, forse anche oggi, ma potrebbe perfino chiamarsi Mario o Maria.
Per dire di Bonaccini, lunedì il Ronaldo del Pd che non è la Juve ha pronunciato tra le due-tre parole madri del dopo vittoria la parola autonomia. Ovvero una parola che a questo Pd sempre più orientato a sinistra (legittimo ovviamente) fa venire i capelli mezzi dritti, nonostante fu proprio il centrosinistra - magari come strategia interdittiva dell’allora secessione in salsa padana - a produrre uno straccio di riforma costituzionale (il Titolo quinto) di stampo federalista. Autonomia non solo osteggiata da quel che resta dei Cinque Stelle ma invisa a una parte della sinistra e della galassia culturale «progressista» (il sindacato sulla scuola, per citarne un pezzo) poiché «pericolosa per l’unità del Paese». Vero, sull’autonomia c’è l’apertura del ministro Boccia che assicura al rieletto governatore Bonaccini la calendarizzazione della legge a breve, ma dal dossier del governo manca una parola chiave (a proposito, le parole...) che è la «virtuosità».
E che dire dell’altra parola, quasi impronunciabile, che è l’immigrazione e del cui copyright si è impossessato Salvini fra digrigno di denti e raccolta di consensi – sì, anche a sinistra da Bolzano a Caltanissetta? Sfida complessissima, si dirà, soprattutto di fronte alle semplificazioni ideologiche e lessicali della Lega. Ma non è che in questi anni sui migranti sia stato sbagliato qualcosa? Dare del «fascista» o «torturatore» a
Minniti - sì, a sinistra è successo anche questo - è servito o al netto della libertà di pensiero o la realtà è un’altra cosa? E se è vero che il ministro Lamorgese ha fatto meglio di Salvini, perche il Pd non lo sa «raccontare»? Chi e come comunica nel Pd? Quali le parole giuste per contrapporre sul web la versione Dem a quella della Bestia?
E ancora: come coniugare ambiente e neosviluppo? Con quale modello di crescita? O di decrescita (in)felice viste le attuali alleanze? E come e quanto scostarsi dalla narrazione di partito della Ztl togliendosi di dosso il sapore di casta metropolitana al tempo in cui le metropoli sono diventate le vere Nazioni (e quanto necessarie…) e le periferie il luogo delle disuguaglianze sia si tratti del tenore di vita del «popolo» che della mancata connessione al web che fa diventare marginali le imprese di campagna, valle e montagna? Periferie dove la globalizzazione voluta da tutti – dal capitalismo dei flussi alla sinistra
teorizzatrice della redistribuzione della ricchezza su scala planetaria (proletari di tutto il mondo…) ha lasciato sul terreno più di qualche vittima e un rancore parecchio condiviso perfino dal lamento di certo ceto benestante. Periferie «adottate» dalla destra in un rovesciamento di senso e consenso da far rivoltare (o sghignazzare) Marx nella tomba. E quindi come ritessere il gap fra «mondo di sopra» e «mondo di sotto», peraltro a porte girevoli, in una società dove l’atomizzazione degli interessi (certo, sempre esistita) prescinde ormai da qualsiasi collocazione ideologica?
Insomma. Chi e cosa essere e dove e con chi andare. Con chi allearsi? Con chi tentare di governare? Virare a sinistra? O (anche) verso il fantomatico centro dei ceti medi «proletarizzati» che non si sa più se moderato o radicale? (forse più il secondo). E che fare del rapporto con le imprese a vario titolo – dalla partita Iva ai campioni di Pil – e con le dinamiche che quel neosviluppo di cui si parlava prima impone?
Sembra che ora la parola d’ordine, dopo lo scampato pericolo delle elezioni regionali di domenica - che hanno tenuto in piedi il governo sia il «modello Bonaccini». Tanto che in Veneto il Pd ha lanciato la mozione degli affetti (già subito senza effetti) invitando tutto il quadro politico presumibilmente anti-leghista a consorziarsi contro Luca Zaia, che non solo non è la Borgonzoni ma il «governatore più amato d’Italia». Per carità, la chiamata alle urne contro il nemico alle porte (che molte porte ha già varcato) potrebbe in parte funzionare. Ma la risposta alla radicalizzazione-polarizzazione del voto messa in atto da Salvini non avrebbe mai la risposta che ha avuto in Emilia Romagna, dove una parte dello stesso centrodestra è sceso in campo contro la candidata del Capitano ritenendo quello del capo leghista un attacco «straniero», non solo o tanto politico ma di sistema, ad una regione con gli standard tra i più alti al mondo (risibili e completamente fuori luogo le contestazioni sulla sanità).
Per questo il «bravo e perfetto» Bonaccini – perfino a parte il suo possibile utilizzo come leader nazionale - non può essere usato come foglia di fico per nascondere la radice del problema. Il «caso Emilia», fatto salvo il fenomeno rivivificante ed esportabile delle Sardine (ma anche qui è tutto da vedere), ha più a che fare con il buon governo e con l’orgoglio di una regione offesa che con una catarsi dove gli auspici superano ed eludono il problema dell’identità del partito. Intanto il tempo stringe. La prossima tornata elettorale – a Nordest oltre alla sfida delle regionali venete ci sarà quella nei Comuni di Venezia, Trento e Bolzano – è già dietro l’angolo.