IL SALTO DEL CUORE
«Ce la caveremo, vero, papà? Sì. Ce la caveremo. E non ci succederà niente di male. Esatto. Perché noi portiamo il fuoco. Sì. Perché noi portiamo il fuoco». Questo è lo struggente dialogo tra padre e figlio nel bellissimo romanzo di Cormac Mccarthy Sulla Strada. E questa è in fondo la domanda che ci facciamo tutti in questi giorni: ce la caveremo? Nel senso più ampio: torneremo alla vita di prima? Sono giorni molto difficili per tutti. Per chi ha perso un famigliare, per chi si è ammalato, per chi è in quarantena, per chi teme di ammalarsi, per chi pensa costantemente ai suoi cari, per chi vive situazioni di fragilità, per chi si preoccupa dei figli e dei genitori anziani. Per chi presta attenzione all’ultimo caso, all’ultimo tweet e a chi cerca di ricordare chi ha incontrato, chi ha abbracciato, chi ha baciato. Sono giorni difficili per chi sta in prima linea.
Sono giorni difficilissimi anche per i medici e per gli infermieri e a distanza siderale, sono giorni difficili anche per noi giornalisti che cerchiamo di raccontare quello che succede facendo scelte quotidiane difficili tra il bisogno di informare e la necessità di non creare altro panico: entriamo e usciamo dalle zone rosse della nostra coscienza tutto il giorno.
L’Emilia e l’Italia sono terre di mescolanza, abbracci, contaminazione, incontri, cuore che si incrocia con altri cuori, aperitivi infiniti, cene all’aperto fino all’alba, portici che proteggono e allargano le case, terre di passaggio. Per tutto questo è maledettamente difficile in questi giorni chiudersi. Non sappiamo come si fa, ci mancano i gesti e le parole. Nei reparti di terapia intensiva dove si curano i bimbi gravemente prematuri i genitori vengono chiamati a toccare i bimbi o a tenerli in braccio e il contatto produce un mezzo miracolo: le pulsazioni del genitore e del figlio si abbassano e soprattutto si uniformano come un’orchestra che batte allo stesso ritmo. Non è una cosa semplice non abbracciarsi. Bisognerà anche trovare le parole per spiegare ai più piccoli cosa sta succedendo perché la prima settimana a casa da scuola è festa, la seconda sollievo, la terza potrebbe portare a qualche malinconica incertezza.
Abbiamo tutti paura e non finisce mai. Siamo eternamente connessi con la paura ma ad un certo punto il cuore fa un salto. Quando torni a casa e ti chiedi se devi o meno abbracciare i tuoi figli allora ti esce fuori una cosa che avvolge la paura, la impacchetta, è qualcosa che viene da lontano, dai tuoi genitori, dai genitori dei tuoi genitori, da quelli che sono usciti dalla guerra, dal retaggio ancestrale delle generazioni che ci hanno preceduto. E ad un certo punto dici basta. Basta con la paura. Oggi la chiamiamo resilienza, ma potremmo anche semplicemente chiamarla compattezza e capacità di tenere botta. Per dirla con Calvino bisogna saper riconoscere cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli spazio. Non è per niente facile ma ce la faremo e torneremo a fare festa. E per dirla con Francesco De Gregori «torneremo ancora a cantare»