L’emergenza dei nostri penitenziari
Che si trattasse di un’emergenza è di tale evidenza, ben prima di decreti e misure anticontagio, tuttavia, la possibilità di comunicare con i familiari rappresenta un gesto fondamentale per la vita e le relazioni di qualsiasi persona detenuta.
Se possiamo perdere la Trebisonda perché vediamo limitare la possibilità di un’aperitivo con amici o di qualsiasi altro momento di conviviali e socialità figuriamoci che cosa significa il solo pensiero di un possibile contagio di Coronavirus in luoghi ove si è assiepati. Comunicare all’esterno, in un frangente così complesso e stressante, davvero si trasforma in una immediata strategia di contenimento, in relazione, ad esempio, al terribile «suicidio farmacologico» dopo aver saccheggiato farmaci e psicofarmaci dall’astanteria.
È proprio il caso di ribadire, anche questa volta, per l’ennesima volta: «Prima la persona». Tanto più i luoghi della sofferenza, ospedali, carceri, le stesse case di vittime o colpiti da virus richiamano l’attenzione collettiva, ancor più, la sensibilità sociale, come dentro una storia a fumetti di Dylan Dog. L’orrore, i demoni, la linea esile fra la banalità del male, il mistero della morte, la diffusione devastante di piccoli e grandi incubi del quotidiano.
La speranza di fondo che affiora in tutte le storie del celeberrimo fumetto italiano è la speranza di trovare qualcuno che accolga, ascolti, comprenda le nostre paure, i timori, persino, gli orrori. La possibilità di comunicare, seppure a fronte di limitazione, per non confinare tutto, ma proprio tutto nella cella di un recluso. Da Aristotele in poi il male trova un corrispettivo nella catarsi di piccoli o grandi segnali d’insofferenza che vengono da lontano, molto lontano. Dove la realtà pare procedere esponenzialmente in senso opposto, l’errore madornale è trincerarsi dietro consueto adagio fra il garantismo che si ferma alle parole e il duro giustizialismo nei fatti. Ne sono morti 9. Agghiacciante Antologia di Spoon River della reclusione lungo la via Emilia.
Essere consapevoli che il Coronavirus riguarda tutti, ma proprio tutti, fuori e dentro dal carcere sarebbe già tantissimo. Vorrebbe dire moltissimo in termini di risposta comune, perché a fronte di certe emergenze non esiste una serie A e una serie B.