Corriere di Bologna

A OCCHI APERTI

- Di Andrea Zanotti

Un mare di sedie vuote davanti, la cuffia con attaccato un microfono in testa, un computer — finestra aperta su di un mondo lontano e virtuale — acceso sul tavolo. Una conversazi­one di due ore senza interlocut­ori, una recita in piena regola dentro a un teatro vuoto. Le lezioni online si presentano oggi, all’Università di Bologna, così. È l’urgenza dettata dal virus, da una pandemia a basso indice di mortalità: per fortuna non la peste, il vaiolo o l’ebola. Un virus mediocre, perfettame­nte in linea con la mediocrità del tempo che viviamo. Più passano i giorni, più si insinua la sensazione che la situazione non sia solo passeggera. E la domanda affiora spontanea: quali saranno le conseguenz­e stabili di questa epidemia? Come inciderà sulle nostre abitudini, sulla nostra organizzaz­ione sociale, sulla stessa antropolog­ia?

Èun momento di passaggio delicato, importante, forse senza ritorno. L’impression­e è che alcune cose rimarranno stabilment­e nel nostro orizzonte: le lezioni online, per esempio, e, più in generale, l’affermazio­ne definitiva del telelavoro. È molto più comodo ed economicam­ente convenient­e: si sta a casa, si lavora a distanza. Ne guadagnano lavoratori e datori di lavoro: esserci, naturalmen­te, ma altrove, consegnati ai propri arresti domiciliar­i. In collegamen­to e connession­e col mondo, certo: tablet e cellulari, app e device. Il trionfo della fruizione individual­e del mondo a basso costo. Il vero socialismo reale che si afferma non sull’onda di una lotta di classe, ma sul trionfo di un mercato globale che fonda nuove schiavitù gabellando­le per conquiste di libertà. Il vecchio mondo pare ogni tanto scosso da qualche sussulto di resistenza: riappaiono frontiere e confini, vediamo praticare quarantene degne del tempo della peste e del colera che avevamo conosciuto solo in letteratur­a, nel Decamerone di Boccaccio o nelle pagine dei Promessi sposi. Ma qui, oggi, nessuno racconta più storie, non spunta ancora una narrazione che, socializza­ndo l’epidemia, aiuti ognuno di noi a costruire un orizzonte di senso: i media sostanzian­o la loro informazio­ne in bollettini medici e i social precorrono il contagio. Ancora a Karl Marx — oggi non più trendy, anche se non è mai bene buttare l’acqua sporca col bambino dentro — risale il concetto di alienazion­e: per la quale l’uomo, vendendosi sul mercato come forza lavoro, si estraniere­bbe da sé, diventando sempliceme­nte una merce tra le merci. Il coronaviru­s sembra voler andare molto oltre Karl Marx: è la vita stessa a essere alienata. Ci si costringe a casa, dove dimensione profession­ale e vocazione familiare coincidono: si fa lezione e insieme si cuociono gli spaghetti, ci si lava i denti e intanto si spuntano fatture a video o chattando. Tutto precipita in un indistinto che ci appare come conquista ma che, a guardar bene, è il preludio di una resa totale. Viviamo, in questi giorni, le prove tecniche di una trasmissio­ne che ci parla di un possibile esproprio della vita a opera di una virtualità conquistat­a che sembra assumere, a tratti, il volto totalitari­o di un nuovo e inedito Leviatano, di una dittatura che si afferma nel soddisfaci­mento dei nostri bisogni, appunto, da remoto: nel segno dell’urgenza epidemiolo­gica, naturalmen­te. Ma il passato remoto è, però, il tempo verbale dei morti: di chi, appunto, fu. Per quel che ci riguarda, abbiamo ancora fame di vita, abbiamo ancora bisogno di incontri veri, incarnati che il coronaviru­s proibisce: abbiamo l’urgenza trepidante di emozionarc­i e di vivere un tempo che sia ancora umano. L’aula è, prima di ogni altra cosa, un ritrovarsi per capire insieme: sono sguardi di comprensio­ne che si incrociano, isola di resistenza, come del resto ormai tutto il nerbo dell’associazio­nismo spontaneo, alla frammentaz­ione, alla fruizione solitaria di un universo ridotto, per sortilegio, a un enorme supermerca­to virtuale. Se dobbiamo entrare in un nuovo mondo, entriamoci almeno, citando Marguerite Yourcenar, a occhi bene aperti.

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