A OCCHI APERTI
Un mare di sedie vuote davanti, la cuffia con attaccato un microfono in testa, un computer — finestra aperta su di un mondo lontano e virtuale — acceso sul tavolo. Una conversazione di due ore senza interlocutori, una recita in piena regola dentro a un teatro vuoto. Le lezioni online si presentano oggi, all’Università di Bologna, così. È l’urgenza dettata dal virus, da una pandemia a basso indice di mortalità: per fortuna non la peste, il vaiolo o l’ebola. Un virus mediocre, perfettamente in linea con la mediocrità del tempo che viviamo. Più passano i giorni, più si insinua la sensazione che la situazione non sia solo passeggera. E la domanda affiora spontanea: quali saranno le conseguenze stabili di questa epidemia? Come inciderà sulle nostre abitudini, sulla nostra organizzazione sociale, sulla stessa antropologia?
Èun momento di passaggio delicato, importante, forse senza ritorno. L’impressione è che alcune cose rimarranno stabilmente nel nostro orizzonte: le lezioni online, per esempio, e, più in generale, l’affermazione definitiva del telelavoro. È molto più comodo ed economicamente conveniente: si sta a casa, si lavora a distanza. Ne guadagnano lavoratori e datori di lavoro: esserci, naturalmente, ma altrove, consegnati ai propri arresti domiciliari. In collegamento e connessione col mondo, certo: tablet e cellulari, app e device. Il trionfo della fruizione individuale del mondo a basso costo. Il vero socialismo reale che si afferma non sull’onda di una lotta di classe, ma sul trionfo di un mercato globale che fonda nuove schiavitù gabellandole per conquiste di libertà. Il vecchio mondo pare ogni tanto scosso da qualche sussulto di resistenza: riappaiono frontiere e confini, vediamo praticare quarantene degne del tempo della peste e del colera che avevamo conosciuto solo in letteratura, nel Decamerone di Boccaccio o nelle pagine dei Promessi sposi. Ma qui, oggi, nessuno racconta più storie, non spunta ancora una narrazione che, socializzando l’epidemia, aiuti ognuno di noi a costruire un orizzonte di senso: i media sostanziano la loro informazione in bollettini medici e i social precorrono il contagio. Ancora a Karl Marx — oggi non più trendy, anche se non è mai bene buttare l’acqua sporca col bambino dentro — risale il concetto di alienazione: per la quale l’uomo, vendendosi sul mercato come forza lavoro, si estranierebbe da sé, diventando semplicemente una merce tra le merci. Il coronavirus sembra voler andare molto oltre Karl Marx: è la vita stessa a essere alienata. Ci si costringe a casa, dove dimensione professionale e vocazione familiare coincidono: si fa lezione e insieme si cuociono gli spaghetti, ci si lava i denti e intanto si spuntano fatture a video o chattando. Tutto precipita in un indistinto che ci appare come conquista ma che, a guardar bene, è il preludio di una resa totale. Viviamo, in questi giorni, le prove tecniche di una trasmissione che ci parla di un possibile esproprio della vita a opera di una virtualità conquistata che sembra assumere, a tratti, il volto totalitario di un nuovo e inedito Leviatano, di una dittatura che si afferma nel soddisfacimento dei nostri bisogni, appunto, da remoto: nel segno dell’urgenza epidemiologica, naturalmente. Ma il passato remoto è, però, il tempo verbale dei morti: di chi, appunto, fu. Per quel che ci riguarda, abbiamo ancora fame di vita, abbiamo ancora bisogno di incontri veri, incarnati che il coronavirus proibisce: abbiamo l’urgenza trepidante di emozionarci e di vivere un tempo che sia ancora umano. L’aula è, prima di ogni altra cosa, un ritrovarsi per capire insieme: sono sguardi di comprensione che si incrociano, isola di resistenza, come del resto ormai tutto il nerbo dell’associazionismo spontaneo, alla frammentazione, alla fruizione solitaria di un universo ridotto, per sortilegio, a un enorme supermercato virtuale. Se dobbiamo entrare in un nuovo mondo, entriamoci almeno, citando Marguerite Yourcenar, a occhi bene aperti.