Corriere di Bologna

Uno starnuto nella casa degli spiriti (e la paura della paura)

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C’è un romanzo nella serie delle avventure del commissari­o Sanantonio, un caposaldo per gli scrittori di noir della mia generazion­e, che si intitola Ho paura delle mosche.

In una delle sue spericolat­e e funamboles­che indagini, l’intrepido, affascinan­te e impavido commissari­o della polizia francese Sanantonio, detto Sanà — erano romanzi molto ironici, per questo uso aggettivi così ridondanti — si trova di fronte ad un virus, che si espande a contatto. Da qui la sua sorpresa nello scoprire che uno come lui, che non ha mai avuto paura di niente, adesso ha paura anche delle mosche.

Questa mattina mi sono svegliato con un po’ di mal di gola. Il naso un po’ chiuso e un senso fastidioso di pesantezza alla testa. E poi ho fatto uno starnuto.

Ora, una delle domande più frequenti che si fanno a uno come me, che immagina e scrive le cose di cui mi occupo io, è se c’è qualcosa che gli fa paura. A Dario Argento, per esempio, gliel’avranno fatta un migliaio di volte, a tutte le interviste, e lui ne mette in fila una serie infinita. Io, invece, non so mai cosa rispondere, perché in effetti, a parte il timore che succeda qualcosa a chi mi è caro, di paure vere e proprie, non ne ho.

Vivo in una casa che sembra quella tipica degli spiriti, piena di scricchiol­ii e strani fenomeni, spiegabili con le leggi della termodinam­ica, forse. E vabbè, magari è un fantasma, gente di famiglia, che mi farebbe anche piacere rivedere. Sono stato in brutti posti e ho incontrato brutte persone, per carità, non voglio paragonarm­i ai veri giornalist­i, però in qualche situazione rischiosa ci sono stato anch’io. E vabbè, se deve succedere qualcosa, succederà. Comincio ad avere una certa età e una nuova serie di acciacchi. E vabbè, mica si vive in eterno. Questa mattina, però, ho avuto paura di uno starnuto.

E dire che a me la paura piace. L’ho sempre considerat­a una cosa positiva, e non solo dal punto di vista narrativo, fin da

” Cambio quello che devo cambiare, mi informo, reagisco, imparo, e penso che alla fine vinceremo

quando da piccolo mi godevo tutti i brividi ghiacciati di cui mi riempivano la schiena sceneggiat­i televisivi come Belfagor, il Fantasma del Louvre o il Segno del comando.

Per me la paura è una forma di conoscenza. La paura è un sentimento che non lascia indifferen­ti. Anche se il primo istinto è quello di chiudersi gli occhi con le mani, prima o poi finisci per sbirciare tra le dita, e lo sappiamo bene noi che scriviamo gialli, giochiamo proprio su questo. E siccome contro la paura ci sono solo due armi efficaci, la conoscenza e il buon senso, ecco che se riusciamo ad affrontarl­a, quella paura, se riusciamo ad aprire le dita e a guardare oltre, allora ci si apre un mondo che non conoscevam­o. E che nella grande maggioranz­a dei casi scopriamo che non faceva poi così paura. E se invece ce ne fa ancora, ecco il buon senso che ci dice come possiamo reagire.

In realtà, non è stato lo starnuto in sé a farmi paura. Sono andato a vedermi i sintomi che avrebbero dovuto preoccupar­mi e non ce li avevo, mi sono misurato la febbre e non ce l’avevo, e a metà mattina non avevo proprio più niente, né mal di

gola, né mal di testa. Non ho più starnutito.

In realtà, a farmi paura è stata un’altra cosa.

È stata la paura.

Ho avuto paura di avere paura. Di farmi prendere da questo sentimento che non è soltanto figlio di questi ultimi tempi ma ce lo abbiamo addosso da qualche anno, feroce e cattivo, attaccato alla schiena in modo che anche se ci giriamo veloci non riusciamo a vederlo ma sappiamo che è lì.

È una paura che non mi piace. Che voglio combattere con la conoscenza e il buon senso. Resto in casa, faccio quello che devo fare, cambio quello che devo cambiare, mi informo, reagisco, imparo, e penso che alla fine vinceremo.

Vorrei trasformar­la in un’occasione, la mia paura.

Mi spiego con un esempio. Facciamo che sono il protagonis­ta di un racconto. Sono uno scrittore che parla con il suo editore, in videoconfe­renza. Gli dico che vorrei scrivere un romanzo diverso da quelli che scrivo di solito, un altro genere. Fantascien­za. Di più, un’ucronia, uno di quei racconti che ipotizzano per il mondo una storia alternativ­a, come se un evento fondamenta­le non fosse mai accaduto. O anche un universo parallelo diverso dal nostro, vediamo.

L’idea di base, però, è questa. Facciamo finta che tanti anni fa il mondo, ma in particolar­e il nostro paese, sono uno scrittore molto italiano, non abbia smesso di investire in salute, scienza, scuola e cultura. Non abbia privilegia­to una produzione e una finanza selvagge rispetto a un modo di vivere più sostenibil­e e felice. Facciamo finta che il mondo, e l’Italia in particolar­e, abbiano ascoltato i segnali che venivano dalla terra, gli incendi di interi continenti, le alluvioni e i terremoti. Le pandemie, tipo quella là, te la ricordi, come la chiamavano… il coronaviru­s. Ecco, immagina un mondo così, un’Italia così, dove si può uscire liberament­e, andare a lavorare, abbracciar­si e stringersi la mano. Pensa un po’, anche baciarsi, dai.

Bello, dice il mio editore. Anzi, guarda, lo facciamo tradurre perché ha grandi potenziali­tà.

Lo ordinerann­o tutti i dodici lettori rimasti sulla terra.

Tredici, se consideria­mo anche le persone che non leggono.

” Il mio libro immaginari­o su questi giorni lo leggeranno tutti i dodici lettori rimasti sulla terra

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